Il ritorno a «Forza Italia»
preannunciato in questi giorni da Silvio Berlusconi ha di nuovo messo di
cattivo umore i tifosi della Nazione (o, più modestamente, della Nazionale) che
vorrebbero poter parteggiare per il loro paese e per le sue squadre senza
essere targati politicamente. Ora, in verità, si rischia anche con l’inno nazionale,
soprattutto perché a contendersi il suo primo verso, «Fratelli d’Italia», sono
due formazioni politiche diverse: una è “famosa”, ma è nata poco prima di avere
depositato il suo simbolo; l’altra, pur avendo una storia molto più lunga, è
meno nota, non ha potuto partecipare alle ultime elezioni politiche, in
compenso le sono stati notificati pacchi di verbali per affissioni abusive effettuate
dai “Fratelli” famosi.
A fare la fila al Viminale per
consegnare i simboli per partecipare alle elezioni, nei giorni che hanno
preceduto l’11 gennaio, c’erano sì i rappresentanti di «Fratelli d’Italia – Centrodestra nazionale», il partito che ufficialmente era nato solo il 21
dicembre 2012 (a conti fatti, venti giorni prima) ad opera di Guido Crosetto,
Giorgia Meloni e Ignazio La Russa. In coda, però, c’erano anche altri Fratelli
d’Italia, per l’esattezza «Movimento politico Fratelli d’Italia», costituito
invece il 21 ottobre del 2004
a Marsala e rappresentato dal segretario Salvatore Rubbino.
Il simbolo attuale del movimento, la sagoma di un cavaliere su destriero su
fondo blu ed elemento tricolore in basso, sulle schede per eleggere Camera e
Senato non è mai arrivato: lo hanno bocciato prima il Ministero dell’interno,
poi l’Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione. Di
tutte le esclusioni operate in quei giorni, quella del Mpfi ha ricevuto meno
attenzione da parte dei media (rispetto
ai casi dei “cloni” di Grillo, Ingroia e Monti, per dire), eppure è il caso più
insidioso, per come certe regole sono state interpretate da chi era chiamato a
decidere; dovesse capitare di nuovo, sarebbe addirittura pericoloso.
Cos’era accaduto, dunque, al
Viminale? Nelle bacheche si potevano vedere due contrassegni: al numero 10, i
Fratelli di Crosetto, con tanto di nodo tricolore tra la parte superiore azzurra
(col nome del partito) e quella inferiore bianca; al numero 47, i Fratelli di
Rubbino, con l’emblema ricordato. Per il Ministero dell’interno, c’era il
rischio di confondere i due emblemi a causa del colore dello sfondo (anche se
il blu di Rubbino era molto più scuro dell’azzurro di Crosetto), ma soprattutto
per una questione di «identità letterale»: entrambi presentavano la dicitura «Fratelli
d’Italia» nel contrassegno, cosa del resto abbastanza ovvia, avendo in comune quella
parte del nome.
Una volta individuata la confondibilità, i funzionari del Ministero ritengono di risolverla invitando Rubbino a sostituire il suo emblema, dando preferenza al contrassegno di Crosetto e Meloni, sia perché era stato depositato per primo (al numero 10, contro il numero 47 degli altri Fratelli), sia perché è stato considerato «espressione di una forza politica rappresentata in Parlamento», vale a dire dal gruppo parlamentare formatosi al Senato il 20 dicembre; sempre il Viminale ha precisato che tanto la costituzione di Fd’i di Crosetto quanto l’adozione del suo simbolo «sono stati ampiamente pubblicizzati e diffusi da organi d’informazione e di stampa nazionali nelle ultime settimane». Un ragionamento simile è stato fatto dall’Ufficio elettorale presso la Cassazione, che ha continuato a riconoscere tutela al gruppo della Meloni perché «rappresentato nel disciolto Parlamento»; i magistrati però hanno anche precisato che non rilevano a favore del Mpfi il deposito del simbolo presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi e, soprattutto, l’uso del contrassegno «in competizioni elettorali locali e circoscritte». Morale, Rubbino e i suoi Fratelli (d’Italia) sono fuori dal gioco, ritentino la prossima volta.
Una volta individuata la confondibilità, i funzionari del Ministero ritengono di risolverla invitando Rubbino a sostituire il suo emblema, dando preferenza al contrassegno di Crosetto e Meloni, sia perché era stato depositato per primo (al numero 10, contro il numero 47 degli altri Fratelli), sia perché è stato considerato «espressione di una forza politica rappresentata in Parlamento», vale a dire dal gruppo parlamentare formatosi al Senato il 20 dicembre; sempre il Viminale ha precisato che tanto la costituzione di Fd’i di Crosetto quanto l’adozione del suo simbolo «sono stati ampiamente pubblicizzati e diffusi da organi d’informazione e di stampa nazionali nelle ultime settimane». Un ragionamento simile è stato fatto dall’Ufficio elettorale presso la Cassazione, che ha continuato a riconoscere tutela al gruppo della Meloni perché «rappresentato nel disciolto Parlamento»; i magistrati però hanno anche precisato che non rilevano a favore del Mpfi il deposito del simbolo presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi e, soprattutto, l’uso del contrassegno «in competizioni elettorali locali e circoscritte». Morale, Rubbino e i suoi Fratelli (d’Italia) sono fuori dal gioco, ritentino la prossima volta.
Tutto bene? Nemmeno un po’, a ben
guardare. Perché in questo modo, in pratica, si finisce per negare una storia
lunga anni, dando tra l’altro una “pesante” legittimazione a chi, a ben
guardare, non sembra proprio aver agito per meritarla. Sul piano storico, Il
Movimento politico Fratelli d’Italia ha partecipato a varie tornate elettorali
in Sicilia, dove appunto è nato, sempre su posizioni di centrodestra: prima nel
2007 a
Marsala (lì si è formato già da quell’anno un gruppo consiliare e lo stesso
Salvatore Rubbino è diventato assessore), nel 2008 a Trapani (anche alle
provinciali, con tanto di eletto) e nel 2012 di nuovo alle elezioni comunali di
Marsala e Trapani.
Se nei primi casi era stato utilizzato il simbolo previsto
dallo statuto (con anche la scritta «Ettore Fieramosca» e una grafica più
risalente), a quelle del 2012 è stato presentato un contrassegno con la
denominazione molto più in evidenza, su fondo bianco. Soprattutto, però, Fratelli
d’Italia – Rubbino ha preso parte alle ultime elezioni regionali, datate 28
ottobre 2012, dunque inequivocabilmente prima della costituzione del partito di
Crosetto e della Meloni: l’emblema con cui il Mpfi è stato rappresentato sulla
scheda elettorale è proprio lo stesso (fondo blu) che il Viminale ha respinto a
gennaio.
Ora, se qualcuno potrebbe
considerare una “competizione locale e circoscritta” quella che si svolge in un
comune (sia pure grande, come Marsala o Trapani), certamente non può ricevere
lo stesso trattamento la partecipazione alle elezioni regionali siciliane,
anche in considerazione della pubblicità che quella consultazione ha avuto a
livello nazionale (giornali, tv, rete…). Il deposito degli emblemi, tra l’altro,
è stato fatto presso l’assessorato competente anche a beneficio dell’ufficio
elettorale centrale presso la Corte d’appello di Palermo, chiamata a fare le
veci delle sezioni regionali della Cassazione (mai costituite) e il simbolo del
Mpfi, come gli altri, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale siciliana: per lo speciale livello di autonomia
concesso alla Sicilia, se non si vuole riconoscere a questi atti un valore
quasi pari a quelli compiuti a livello nazionale, è certamente impossibile fare
il paragone con il rinnovo di un consiglio comunale qualunque.
Il Movimento politico Fratelli d’Italia,
insomma, ha fatto esattamente quello che la legge e le stesse «Istruzioni per
la presentazione e l’ammissione delle candidature» redatte dal Ministero dell’interno
richiedono, per cui «I partiti che notoriamente fanno uso di un determinato
simbolo sono tenuti a presentare le loro liste con un contrassegno che
riproduca quel simbolo»: il gruppo ha sempre utilizzato l’espressione «Fratelli
d’Italia» nel simbolo, dunque l’avevano inserita anche a gennaio, accanto alla
sagoma del cavaliere. «Fratelli d’Italia» di Meloni, Crosetto e La Russa,
invece, non vantava alcun uso tradizionale, né avrebbe potuto farlo, visto che
il gruppo era nato venti giorni prima. Le istruzioni ministeriali sono precise
nell’affermare che ai partiti che non abbiano un simbolo tradizionale «è fatto
assoluto divieto di presentare contrassegni identici o confondibili con quelli
[…] che riproducono simboli, elementi e diciture» tradizionalmente usati da
altri partiti (chi non ci crede, si legga uno dopo l’altro i commi 3 e 4 dell’articolo
14 del d.lgs. 361/1957). A stretta logica, Meloni & co. non avrebbero
proprio potuto usare l’espressione (ben identificabile) «Fratelli d’Italia»; né
potevano dire di non sapere dell’esistenza di Rubbino e soci, visto che erano
stati puntualmente diffidati, perché non usassero quel nome (non a caso, nei documenti presentati in Cassazione dal gruppo neocostituito non c'era nulla che fosse davvero a loro favore, anzi, c'erano persino documenti che davano ragione agli esclusi).
Crea ancora più problemi,
però, l’altra osservazione del Ministero, quella sulla tutela
privilegiata al simbolo di Crosetto per la rappresentanza parlamentare e la “notorietà”.
Sul primo punto, è per lo meno curioso che si possa considerare rappresentata
in Parlamento la “forza politica” Fratelli d’Italia – Centrodestra nazionale, il
cui il gruppo di senatori era stato costituito solo il 20 dicembre (ma la
dicitura «Fratelli d’Italia» è stata inserita addirittura il giorno successivo):
non solo il simbolo non ha partecipato alla consultazione politica del 2008, non
venendo sottoposto al controllo del Viminale e al giudizio degli elettori, ma
addirittura per il gruppo di Meloni e Crosetto questo era il primo uso in
assoluto, senza che dunque si potesse far valere alcun test elettorale di altra natura (elezioni europee o regionali). Nonostante
la loro esigua vita di venti giorni, ai Fratelli d’Italia nati per secondi è
stata accordata una tutela pari a quella su cui avrebbero potuto contare Pdl e
Pd, se ne avessero avuto bisogno.
Forse anche per questo, il
Ministero dell’interno aveva sentito il bisogno di “rafforzare” la sua
decisione sottolineando l’ampia pubblicità data alla nascita del soggetto
politico e al suo emblema. La stessa affermazione, del resto, ha “salvato” gli
emblemi legati a Mario Monti e quello di Rivoluzione Civile, che certamente non
potevano vantare alcuna rappresentanza parlamentare in senso stretto. In quei
casi, tuttavia, la posizione del Viminale era del tutto ragionevole, visto che
i simboli “cloni” erano stati fatti con l’evidente scopo di ostacolare la
partecipazione di determinati soggetti politici (oltre che di mettere in luce
varie falle della normativa elettorale); nel caso di Fratelli d’Italia, invece,
il riferimento alla pubblicità e, indirettamente, alla notorietà del segno
spiega sì la decisione, ma apre una falla potenzialmente letale. Se un soggetto
politico del tutto nuovo può prevalere su un partito (di molto) preesistente, con
varie esperienze elettorali sia pure di livello regionale, non tanto perché il
suo simbolo è stato depositato prima – Meloni & co. avrebbero dovuto
comunque astenersi dall’usare nomi altrui consolidati – ma grazie al battage pubblicitario che ha messo in
campo, si rischia di far passare il messaggio che chi dispone di mezzi ingenti
e può permettersi una promozione adeguata può tranquillamente far pesare un uso
di una manciata di giorni più di un uso continuo e documentato lungo anni,
mentre chi non è in grado di pagarsi la pubblicità comunque soccombe.
Un
messaggio chiaramente inaccettabile e, come si diceva, pericoloso. Senza
contare che, sull’effettiva notorietà dei Fratelli di Crosetto, si potrebbe
avere da ridire: per le amministrative di maggio, qualche prefettura ha
invitato a riunioni preparatorie i rappresentanti delle forze politiche in corsa alle elezioni, includendo nell’indirizzario tanto Fd'I quanto il Mpfi, anche se magari uno dei due non si
presentava affatto. È andata decisamente peggio quando alla segreteria del movimento di Rubbino si son visti recapitare la notifica di circa 400 verbali di affissione elettorale abusiva relative
alle elezioni politiche nella maggiore città del Nord: i manifesti, manco a dirlo, erano di Meloni & Co.,
ma avvisi e verbali, chissà perché, sono finiti a Marsala.
Un’applicazione rigorosa delle
regole, dunque, avrebbe dovuto portare all’esclusione temporanea dei Fratelli di
Crosetto (fino a che non avessero trasformato l’emblema), senza alcuna tutela
privilegiata per la presenza in Parlamento. Certo, è facile immaginare cosa
sarebbe successo politicamente se, dopo la campagna pubblicitaria, Meloni e gli
altri avessero dovuto presentarsi con un altro emblema; eventualità, del resto,
tutt’altro che assurda, visto che graficamente i richiami al contrassegno di
Alleanza nazionale erano davvero troppi (il blu per più di metà del segno e la corda tricolore usata nelle campagne degli ex An nel Pdl) e già questo poteva bastare per non
ammettere l’emblema, anche se nessuno della Fondazione An pare abbia protestato.
Anche concedendo al Viminale il
beneficio di aver voluto tutelare l’affidamento degli elettori che avevano già
conosciuto l’emblema attraverso i media (scelta
comunque comprensibile), è davvero inaccettabile che sia stato chiesto al
movimento di Rubbino di sostituire il simbolo intervenendo (anche) sul nome. Al
più sarebbe bastato chiedere di modificare il colore di fondo, tornando al
bianco, ma rinunciare al nome sempre utilizzato in tutta l’attività politica
sembra una richiesta del tutto priva di senso.
Per questo giro ormai (purtroppo) i giochi sono fatti e conclusi, ma alle prossime elezioni sarà cosa ottima e giustissima che le decisioni abbiano un segno diverso: nessuno, men che meno nel terzo millennio, può essere più “uguale” di altri.
Per questo giro ormai (purtroppo) i giochi sono fatti e conclusi, ma alle prossime elezioni sarà cosa ottima e giustissima che le decisioni abbiano un segno diverso: nessuno, men che meno nel terzo millennio, può essere più “uguale” di altri.
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