Marchio registrato dal Nuovo Msi |
La notizia l'ha sparata ieri Il Tempo, non in prima pagina ma dedicando ad essa gran parte della pagina 7: il Nuovo Msi si riprende la Fiamma Tricolore. Verrebbe la tentazione di togliere le maiuscole, visto che non ci si riferisce al partito che nel 1995 fu costituito da Pino Rauti (e attualmente è guidato, dopo varie vicissitudini, da Attilio Carelli), ma proprio al simbolo della fiamma tricolore, che dal 1946 è stato l'elemento grafico caratteristico del Movimento sociale italiano fondato da Giorgio Almirante e, dopo il congresso di Fiuggi del gennaio 1995, è stato inglobato nel contrassegno di Alleanza nazionale, nuova denominazione del Msi.
Il Nuovo Msi di cui parla l'articolo scritto da Antonio Angeli per Il Tempo, invece, è quello fondato negli anni 2000 da Gaetano Saya e oggi guidato da Maria Antonietta Cannizzaro, che almeno dal 2006 cerca di presentare candidature con il simbolo storico (giusto con minime varianti grafiche, ad esempio nel colore della base trapezoidale): qualche volta l'operazione è riuscita alle elezioni comunali e, in passato, provinciali; è sempre andata male, invece, alle elezioni politiche, perché il Ministero dell'interno e l'Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione hanno ritenuto che l'emblema fosse confondibile con quello contenuto nel contrassegno di Alleanza nazionale, anche quando quel partito ormai non era presente in Parlamento (l'ultima decisione era del 2013).
Alla base della pagina del Tempo c'è una sentenza della Corte d'appello di Firenze, depositata il 25 febbraio: si tratta di una decisione di secondo grado relativa a una causa iniziata nel 2006 da Alleanza nazionale - allora pienamente operante - contro il Nuovo Msi - Destra nazionale di Saya, davanti al tribunale di Firenze (la sede era in quella città). Il partito di Fini aveva chiesto di inibire l'uso del nome, della sigla e della fiammella al Nuovo Msi e ai suoi dirigenti, rivendicando la titolarità esclusiva di quei segni identificativi; il tribunale, prima in sede cautelare (in due ordinanze successive) nel 2006, poi con la sentenza di primo grado nel 2008, aveva accolto le richieste di An, riconoscendo a quella formazione politica il diritto esclusivo su denominazione, sigla e simbolo.
Ovviamente il Nuovo Msi ha impugnato quella sentenza, a sé quasi interamente sfavorevole (salvo che nella parte che non la condannava ad alcun risarcimento); nel frattempo, però, Alleanza nazionale aveva celebrato il suo ultimo congresso, sancendo nel 2009 la propria confluenza nel Popolo della libertà, e si era trasformata in semplice associazione politica, poi posta in liquidazione. Alla fine del 2011, poi, era nata con atto notarile la Fondazione Alleanza nazionale, alla quale il partito aveva devoluto la titolarità di tutti i propri beni, compreso il simbolo: per questo, nel giudizio di secondo grado si era costituita l'associazione An in liquidazione (ancora esistente), ma era intervenuta pure la fondazione, sostenendo le stesse ragioni dell'ex partito. I giudici, questa volta, hanno dato torto ad Alleanza nazionale e alla Fondazione An, condannandole al pagamento di tutte le (cospicue) spese processuali. Come mai e cosa significa questo?
All'inizio il collegio riconosce che la materia dei "segni distintivi politici" non è affrontata dalla legge, al di là delle regole valide per le elezioni: la disciplina da applicare si deve trarre dai "principi generali vigenti in materia di identità personale". Sorprende, in realtà, che per i giudici la lacuna normativa coinvolga "l'intero assetto del sistema partitico": al momento i partiti sono ancora associazioni non riconosciute ex art. 36 del codice civile, ma non è vero che non è stata "mai stata varata una normativa volta a regolamentare lo status giuridico o il funzionamento dei partiti"; dalla fine del 2013 queste norme esistono e in Parlamento ora si discute sul riconoscimento della personalità giuridica ai partiti. In ogni caso è vero che, anche e già ora, si riconosce pure ai partiti il diritto esclusivo al nome e alla tutela di esso (artt. 6 e 7 c.c.).
Molto interessante è la riflessione che segue, che correttamente imposta la causa come relativa a diritti della personalità, piuttosto che come relativa a "segni distintivi d’impresa, volta a soddisfare esigenze di carattere prevalentemente economico". Nessuno qui ha invocato la tutela di qualche marchio registrato - non lo hanno fatto An o la fondazione, né il Nuovo Msi, benché il partito risulti titolare dal 2006 di un'opera figurativa tutelata da diritto d'autore e dal 2011 di un marchio, entrambi raffiguranti il proprio simbolo); lo stesso collegio, peraltro, ammette come logiche e strategie di stampo commerciale si siano fatte strada sempre più anche tra i soggetti politici (si pensi alla propaganda e al merchandising).
Politica e pratiche commerciali, però, per i giudici restano distinte: se si parla di gadget o simili ha senso applicare il diritto dei marchi; se in gioco ci sono solo i segni di identificazione di formazioni politiche il piano è del tutto diverso. "Mentre il marchio è [...] un valore cedibile [...] - scrive il collegio di seconde cure - l'identità personale è incedibile e irrinunciabile, nella misura in cui si lega ad un patrimonio morale unico e caratteristico del soggetto, seppur affiliato ad una corrente ideologica storicamente riconoscibile". Per calare la riflessione nel caso concreto, qui la causa non è relativa all'uso del nome Msi e della fiamma tricolore per la produzione di spille, magliette o bandiere, di cui un soggetto diverso da An (o dalla fondazione) potrebbe trarre beneficio, ma all'uso di quel nome e di quel simbolo per rendersi riconoscibili ai cittadini e diffondere le proprie idee.
Poteva dunque An impedire al Nuovo Msi l'uso di quei segni identificativi? Per la Corte d'appello di Firenze no. Nella sentenza si legge che un partito non può cedere ad altri il proprio nome, né "impedire ad altri partiti che si richiamino a quello stesso filone ideologico di far uso della relativa denominazione storica, che non appartiene propriamente al singolo partito, bensì alla dottrina politica a cui il medesimo [...] si richiama". Per rafforzare il ragionamento, i giudici richiamano i concetti di "marchio forte" e "marchio debole", legati al requisito della capacità distintiva (o originalità) dei marchi: meno un segno "connesso alla natura o alla qualità intrinseca del prodotto contraddistinto", più è forte e più è protetto da imitazioni anche parziali. In caso di marchi generici e descrittivi (com'erano, in origine, anche Nutella e Coca-Cola), invece, si deve tollerare la convivenza con marchi simili, relativi a prodotti affini: l'importante è che le "variazioni sul tema" siano sufficienti a scongiurare il rischio di confusione tra marchi e prodotti. Trasportando la riflessione in campo politico, "la capacità distintiva di denominazioni come 'sociale', 'socialista', 'comunista', [...], 'italiano', [...] [è] alquanto debole, anzi debolissima" e in effetti così è, trattandosi di parole di uso comune e difficilmente sostituibili con altre.
Queste premesse bastano ai giudici per smontare la sentenza di primo grado. Innanzitutto, per loro, "l'associazione attrice ha dismesso la denominazione che vorrebbe precludere alla controparte"; il cambiamento di nome da Msi ad An, dunque, sottenderebbe "una svolta radicale rispetto alle tradizioni del passato" e le parole pronunciate nel tempo da Fini suonerebbero come un "ripudio ideologico", che non potrebbe consentire la coesistenza del cambio di identità e del mantenimento dell'identità dismessa. Il Nuovo Msi, usando nome e simbolo del Msi "storico" non avrebbe fatto altro che "riprendere l'ispirazione politica abbandonata dalle controparti [...] rinsaldando il ponte ideologico smantellato dalla trasformazione politica di An verso la convergenza col Popolo delle Libertà".
Per il collegio non ci sarebbe neanche il rischio di confusione tra il Nuovo Msi e An, dalla quale il partito di Saya e Cannizzaro avrebbe "cercato di distinguersi accuratamente [...], introducendo cambiamenti anche grafici nell'uso dei segni ed aggiungendo la denominazione 'Destra Nazionale', onde rimarcare la propria autonomia". La sovrapposizione con An sarebbe evitata dallo stesso cambio di nome effettuato da questa nel 1995 e dalla necessità di considerare il rischio confusorio guardando alla percezione "globale e sintetica" dei segni, non alle loro singole parti: l'aggiunta di "Nuovo" e "Destra nazionale" al nome varrebbero "univocamente a distinguere l'ente appellante dal fantasma del Msi ormai disperso in An e ivi deprivato di valenza identitaria".
Non ci sarebbe dunque alcuna usurpazione di nomi e simboli, ma "una dismissione del nome proprio" da parte del Msi-An, nome raccolto da Saya e Cannizzaro come se fosse una cosa ormai di nessuno (ma, come si è visto, poteva trattarsi anche di un nome politico generico che altri avrebbero potuto adottare con varianti). Quanto alla cessione di nome e simbolo alla Fondazione An, avvenuta in corso di causa, i giudici rilevano che la fondazione "non è [...] un partito politico, né un successore universale di An", ma solo l'acquirente a titolo particolare di un preteso diritto immateriale". L'associazione An (in liquidazione) e la fondazione, dunque, sono due soggetti diversi e il supposto "diritto esclusivo alla utilizzazione anche economica degli emblemi, dei simboli, dei loghi" (frase probabilmente contenuta negli atti di parte presentati dalla fondazione) contrasta con l'indisponibilità del diritto al nome; in più, la cessione di nome e simbolo dal partito alla fondazione, ponendosi essenzialmente in una logica di natura commerciale, "smenti[rebbe] [...] smaccatamente l'esigenza di tutela della personalità di An ravvisata dal primo giudice", mancando i presupposti di una tutela del nome o dell'identità personale.
Da cultore della materia, ammetto che più di un punto della sentenza mi lascia perplesso. Nulla da dire sulle riflessioni preliminari legate ai diritti della personalità e diritti sui segni distintivi (specie sulla necessità di distinguere la tutela dell'identità e la protezione dei marchi), come pure sui ragionamenti relativi ai marchi forti e deboli. I dubbi spuntano sulla configurazione del passaggio ad Alleanza nazionale come abbandono del nome Msi e ripudio ideologico. La virata ideologica indubbiamente c'è stata, ma la giurisprudenza ormai più che consolidata ha sempre preferito non impegnare i giudici in valutazioni sulla "coerenza politica" dei vari attori: l'unico criterio guida era il rispetto delle regole interne al partito per il cambio di nome (e simbolo). Accertato il rispetto dello statuto e delle altre regole rilevanti, il giudice rilevava la continuità giuridica dell'associazione, che restava titolare (anche) di nome e simbolo vecchi, perché facevano parte del suo passato "recentissimo" e il soggetto giuridico era rimasto lo stesso: se il partito A cambiava nome in Z, perché si doveva permettere a un altro gruppo (magari fatto da persone uscite da A) di chiamarsi proprio A, facendo credere agli elettori di essere la stessa formazione di prima?
I giudici, poi, rendono poco credibile la qualificazione del passaggio Msi-An come "ripudio ideologico" del patrimonio ideale del Msi citando l'esempio ben noto della transizione dal Partito comunista italiano al Partito democratico della sinistra. Per la Corte, "anche il 'Partito comunista italiano' ad un certo punto è diventato 'Partito democratico di sinistra' e poi solo 'Partito democratico', ma compiendo quella scelta non poteva pensare di vietare ad altri la rievocazione della dottrina politica abbandonata, col relativo nome, espressivo di ideali ritenuti superati dal principale portatore di un tempo, eppure non eliminabili dalle nostalgie altrui, come s'è visto con la nascita (legittima) di nuovi partiti comunisti".
Ora, a parte il riferimento del tutto fuori luogo al Pd (che è soggetto giuridicamente diverso rispetto al Pci-Pds), la notissima ordinanza del presidente del Tribunale di Roma - 26 aprile 1991, n. 9043 - sulla richiesta del Pci-Garavini (futura Rifondazione comunista) di essere riconosciuto titolare di nome e simbolo del Pci, era stata chiarissima nel dire che non vi era stato alcun abbandono o ripudio di nome e simbolo, anche perché il Pds aveva espressamente scelto di mantenerli alla base della quercia nel contrassegno nuovo. Lo stesso avrebbe deciso sempre il Tribunale di Roma nelle ordinanze del 1995 proprio sulla vicenda giuridica che opponeva An alla futura Fiamma tricolore di Rauti (una vicenda da tutti giudicata "gemella" rispetto a quella Prc-Pds, a distanza di quattro anni); parlare di ripudio, dunque, sembra particolarmente inappropriato.
Forse sulla decisione della Corte d'appello ha influito il tempo trascorso dal cambio di nome: se certamente nel periodo 1995-2009 e anche negli anni di poco successivi era essenziale evitare che qualche partito potesse essere scambiato con il Msi trasformatosi in An, oggi questo rischio potrebbe essere stato considerato accantonato (e il non uso del nome Msi per una ventina di anni potrebbe far pensare all'abbandono), come la migliore dottrina sosteneva già negli anni '90. Questo però non emerge chiaramente dalla sentenza e, anche se fosse, qualcuno potrebbe non essere pienamente d'accordo.
Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni devono prepararsi ad abbandonare il simboletto di An? Non è detto. Come è noto, per il Viminale e per i giudici che di volta in volta si sono espressi su questioni simili - a partire dalla storia infinita legata allo scudo crociato - la tutela civile del simbolo (come quella azionata in questa causa) è una cosa, quella elettorale è un'altra e segue regole diverse, speciali. Da molti anni a questa parte viene tutelato soprattutto il simbolo di chi sta in Parlamento e Fratelli d'Italia è presente alla Camera. La Cannizzaro, dalla sua, potrebbe utilizzare almeno un paio di argomenti: Fdi non ha avuto eletti a Montecitorio, Palazzo Madama o Strasburgo con il simbolo contenente la fiammella (adottata nel 2014 per le europee, ma il partito non ha superato lo sbarramento) e, soprattutto, non ha un uso che possa dirsi realmente "tradizionale" (visto il breve tempo di utilizzo); il Nuovo Msi, al contrario, pur non avendo mai avuto accesso a competizioni politiche nazionali, è riuscito a presentarsi più volte con quel simbolo a livello locale. L'unica certezza, forse, è che il contenzioso non è affatto concluso: per l'ennesima volta, la lite s'inFiamma...
Il Nuovo Msi di cui parla l'articolo scritto da Antonio Angeli per Il Tempo, invece, è quello fondato negli anni 2000 da Gaetano Saya e oggi guidato da Maria Antonietta Cannizzaro, che almeno dal 2006 cerca di presentare candidature con il simbolo storico (giusto con minime varianti grafiche, ad esempio nel colore della base trapezoidale): qualche volta l'operazione è riuscita alle elezioni comunali e, in passato, provinciali; è sempre andata male, invece, alle elezioni politiche, perché il Ministero dell'interno e l'Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione hanno ritenuto che l'emblema fosse confondibile con quello contenuto nel contrassegno di Alleanza nazionale, anche quando quel partito ormai non era presente in Parlamento (l'ultima decisione era del 2013).
Alla base della pagina del Tempo c'è una sentenza della Corte d'appello di Firenze, depositata il 25 febbraio: si tratta di una decisione di secondo grado relativa a una causa iniziata nel 2006 da Alleanza nazionale - allora pienamente operante - contro il Nuovo Msi - Destra nazionale di Saya, davanti al tribunale di Firenze (la sede era in quella città). Il partito di Fini aveva chiesto di inibire l'uso del nome, della sigla e della fiammella al Nuovo Msi e ai suoi dirigenti, rivendicando la titolarità esclusiva di quei segni identificativi; il tribunale, prima in sede cautelare (in due ordinanze successive) nel 2006, poi con la sentenza di primo grado nel 2008, aveva accolto le richieste di An, riconoscendo a quella formazione politica il diritto esclusivo su denominazione, sigla e simbolo.
Ovviamente il Nuovo Msi ha impugnato quella sentenza, a sé quasi interamente sfavorevole (salvo che nella parte che non la condannava ad alcun risarcimento); nel frattempo, però, Alleanza nazionale aveva celebrato il suo ultimo congresso, sancendo nel 2009 la propria confluenza nel Popolo della libertà, e si era trasformata in semplice associazione politica, poi posta in liquidazione. Alla fine del 2011, poi, era nata con atto notarile la Fondazione Alleanza nazionale, alla quale il partito aveva devoluto la titolarità di tutti i propri beni, compreso il simbolo: per questo, nel giudizio di secondo grado si era costituita l'associazione An in liquidazione (ancora esistente), ma era intervenuta pure la fondazione, sostenendo le stesse ragioni dell'ex partito. I giudici, questa volta, hanno dato torto ad Alleanza nazionale e alla Fondazione An, condannandole al pagamento di tutte le (cospicue) spese processuali. Come mai e cosa significa questo?
All'inizio il collegio riconosce che la materia dei "segni distintivi politici" non è affrontata dalla legge, al di là delle regole valide per le elezioni: la disciplina da applicare si deve trarre dai "principi generali vigenti in materia di identità personale". Sorprende, in realtà, che per i giudici la lacuna normativa coinvolga "l'intero assetto del sistema partitico": al momento i partiti sono ancora associazioni non riconosciute ex art. 36 del codice civile, ma non è vero che non è stata "mai stata varata una normativa volta a regolamentare lo status giuridico o il funzionamento dei partiti"; dalla fine del 2013 queste norme esistono e in Parlamento ora si discute sul riconoscimento della personalità giuridica ai partiti. In ogni caso è vero che, anche e già ora, si riconosce pure ai partiti il diritto esclusivo al nome e alla tutela di esso (artt. 6 e 7 c.c.).
Molto interessante è la riflessione che segue, che correttamente imposta la causa come relativa a diritti della personalità, piuttosto che come relativa a "segni distintivi d’impresa, volta a soddisfare esigenze di carattere prevalentemente economico". Nessuno qui ha invocato la tutela di qualche marchio registrato - non lo hanno fatto An o la fondazione, né il Nuovo Msi, benché il partito risulti titolare dal 2006 di un'opera figurativa tutelata da diritto d'autore e dal 2011 di un marchio, entrambi raffiguranti il proprio simbolo); lo stesso collegio, peraltro, ammette come logiche e strategie di stampo commerciale si siano fatte strada sempre più anche tra i soggetti politici (si pensi alla propaganda e al merchandising).
Politica e pratiche commerciali, però, per i giudici restano distinte: se si parla di gadget o simili ha senso applicare il diritto dei marchi; se in gioco ci sono solo i segni di identificazione di formazioni politiche il piano è del tutto diverso. "Mentre il marchio è [...] un valore cedibile [...] - scrive il collegio di seconde cure - l'identità personale è incedibile e irrinunciabile, nella misura in cui si lega ad un patrimonio morale unico e caratteristico del soggetto, seppur affiliato ad una corrente ideologica storicamente riconoscibile". Per calare la riflessione nel caso concreto, qui la causa non è relativa all'uso del nome Msi e della fiamma tricolore per la produzione di spille, magliette o bandiere, di cui un soggetto diverso da An (o dalla fondazione) potrebbe trarre beneficio, ma all'uso di quel nome e di quel simbolo per rendersi riconoscibili ai cittadini e diffondere le proprie idee.
Poteva dunque An impedire al Nuovo Msi l'uso di quei segni identificativi? Per la Corte d'appello di Firenze no. Nella sentenza si legge che un partito non può cedere ad altri il proprio nome, né "impedire ad altri partiti che si richiamino a quello stesso filone ideologico di far uso della relativa denominazione storica, che non appartiene propriamente al singolo partito, bensì alla dottrina politica a cui il medesimo [...] si richiama". Per rafforzare il ragionamento, i giudici richiamano i concetti di "marchio forte" e "marchio debole", legati al requisito della capacità distintiva (o originalità) dei marchi: meno un segno "connesso alla natura o alla qualità intrinseca del prodotto contraddistinto", più è forte e più è protetto da imitazioni anche parziali. In caso di marchi generici e descrittivi (com'erano, in origine, anche Nutella e Coca-Cola), invece, si deve tollerare la convivenza con marchi simili, relativi a prodotti affini: l'importante è che le "variazioni sul tema" siano sufficienti a scongiurare il rischio di confusione tra marchi e prodotti. Trasportando la riflessione in campo politico, "la capacità distintiva di denominazioni come 'sociale', 'socialista', 'comunista', [...], 'italiano', [...] [è] alquanto debole, anzi debolissima" e in effetti così è, trattandosi di parole di uso comune e difficilmente sostituibili con altre.
Queste premesse bastano ai giudici per smontare la sentenza di primo grado. Innanzitutto, per loro, "l'associazione attrice ha dismesso la denominazione che vorrebbe precludere alla controparte"; il cambiamento di nome da Msi ad An, dunque, sottenderebbe "una svolta radicale rispetto alle tradizioni del passato" e le parole pronunciate nel tempo da Fini suonerebbero come un "ripudio ideologico", che non potrebbe consentire la coesistenza del cambio di identità e del mantenimento dell'identità dismessa. Il Nuovo Msi, usando nome e simbolo del Msi "storico" non avrebbe fatto altro che "riprendere l'ispirazione politica abbandonata dalle controparti [...] rinsaldando il ponte ideologico smantellato dalla trasformazione politica di An verso la convergenza col Popolo delle Libertà".
Per il collegio non ci sarebbe neanche il rischio di confusione tra il Nuovo Msi e An, dalla quale il partito di Saya e Cannizzaro avrebbe "cercato di distinguersi accuratamente [...], introducendo cambiamenti anche grafici nell'uso dei segni ed aggiungendo la denominazione 'Destra Nazionale', onde rimarcare la propria autonomia". La sovrapposizione con An sarebbe evitata dallo stesso cambio di nome effettuato da questa nel 1995 e dalla necessità di considerare il rischio confusorio guardando alla percezione "globale e sintetica" dei segni, non alle loro singole parti: l'aggiunta di "Nuovo" e "Destra nazionale" al nome varrebbero "univocamente a distinguere l'ente appellante dal fantasma del Msi ormai disperso in An e ivi deprivato di valenza identitaria".
Non ci sarebbe dunque alcuna usurpazione di nomi e simboli, ma "una dismissione del nome proprio" da parte del Msi-An, nome raccolto da Saya e Cannizzaro come se fosse una cosa ormai di nessuno (ma, come si è visto, poteva trattarsi anche di un nome politico generico che altri avrebbero potuto adottare con varianti). Quanto alla cessione di nome e simbolo alla Fondazione An, avvenuta in corso di causa, i giudici rilevano che la fondazione "non è [...] un partito politico, né un successore universale di An", ma solo l'acquirente a titolo particolare di un preteso diritto immateriale". L'associazione An (in liquidazione) e la fondazione, dunque, sono due soggetti diversi e il supposto "diritto esclusivo alla utilizzazione anche economica degli emblemi, dei simboli, dei loghi" (frase probabilmente contenuta negli atti di parte presentati dalla fondazione) contrasta con l'indisponibilità del diritto al nome; in più, la cessione di nome e simbolo dal partito alla fondazione, ponendosi essenzialmente in una logica di natura commerciale, "smenti[rebbe] [...] smaccatamente l'esigenza di tutela della personalità di An ravvisata dal primo giudice", mancando i presupposti di una tutela del nome o dell'identità personale.
I giudici, poi, rendono poco credibile la qualificazione del passaggio Msi-An come "ripudio ideologico" del patrimonio ideale del Msi citando l'esempio ben noto della transizione dal Partito comunista italiano al Partito democratico della sinistra. Per la Corte, "anche il 'Partito comunista italiano' ad un certo punto è diventato 'Partito democratico di sinistra' e poi solo 'Partito democratico', ma compiendo quella scelta non poteva pensare di vietare ad altri la rievocazione della dottrina politica abbandonata, col relativo nome, espressivo di ideali ritenuti superati dal principale portatore di un tempo, eppure non eliminabili dalle nostalgie altrui, come s'è visto con la nascita (legittima) di nuovi partiti comunisti".
Ora, a parte il riferimento del tutto fuori luogo al Pd (che è soggetto giuridicamente diverso rispetto al Pci-Pds), la notissima ordinanza del presidente del Tribunale di Roma - 26 aprile 1991, n. 9043 - sulla richiesta del Pci-Garavini (futura Rifondazione comunista) di essere riconosciuto titolare di nome e simbolo del Pci, era stata chiarissima nel dire che non vi era stato alcun abbandono o ripudio di nome e simbolo, anche perché il Pds aveva espressamente scelto di mantenerli alla base della quercia nel contrassegno nuovo. Lo stesso avrebbe deciso sempre il Tribunale di Roma nelle ordinanze del 1995 proprio sulla vicenda giuridica che opponeva An alla futura Fiamma tricolore di Rauti (una vicenda da tutti giudicata "gemella" rispetto a quella Prc-Pds, a distanza di quattro anni); parlare di ripudio, dunque, sembra particolarmente inappropriato.
Forse sulla decisione della Corte d'appello ha influito il tempo trascorso dal cambio di nome: se certamente nel periodo 1995-2009 e anche negli anni di poco successivi era essenziale evitare che qualche partito potesse essere scambiato con il Msi trasformatosi in An, oggi questo rischio potrebbe essere stato considerato accantonato (e il non uso del nome Msi per una ventina di anni potrebbe far pensare all'abbandono), come la migliore dottrina sosteneva già negli anni '90. Questo però non emerge chiaramente dalla sentenza e, anche se fosse, qualcuno potrebbe non essere pienamente d'accordo.
Anche il discorso sul marchio debole merita qualche osservazione. Concordo in pieno coi giudici quando scrivono che "la fiamma tricolore simboleggia un patrimonio ideologico ben radicato nella storia politica italiana" e, com'è avvenuto con la falce e il martello per i social-comunisti, potrebbe essere interpretata anche da altri partiti, pur in modo sufficientemente originale da non creare confusione (per questo non sarebbero ingannevoli la "goccia tricolore" della Fiamma tricolore o la "fenice" del Movimento sociale per l'Europa). Qui però la questione è diversa, perché la fiamma tricolore è la copia carbone di quella del Msi, poi portata in An (al di là della diversa grafica della base trapezoidale): è davvero difficile pensare che sia sufficiente introdurre pochi elementi testuali e grafici di differenziazione per evitare rischi confusori. Tra l'altro, la dicitura "Destra nazionale" è stata presente nel simbolo del Msi per oltre vent'anni: forse ha aumentato la distanza da An, ma ha aumentato anche la somiglianza con il simbolo del "vecchio" Msi: le persone attente rileveranno la differenza, ma qualcuno potrebbe credere che si tratti del "vecchio" partito rimesso in pista.
Fatte queste valutazioni - e sapendo che la sentenza potrebbe essere impugnata in Cassazione - occorre prendere atto di questa nuova decisione, che forse per la prima volta dà rilievo alle "virate ideologiche" anche nelle vicende legate alla titolarità dei segni identificativi. Va precisato: la sentenza non dice che An (o la fondazione) hanno perso il nome e il simbolo, ma solo che non possono impedirne l'uso a chi si collochi in quell'alveo politico e ideologico. E' altrettanto vero che, come accennavo prima, il Nuovo Msi ha registrato negli anni il simbolo come opera dell'ingegno protetta da diritto d'autore e come marchio, motivo per cui potrebbe voler impedire a chiunque altro di utilizzare la fiammella tricolore nel proprio emblema. A partire ovviamente da soggetti come Fratelli d'Italia, che dal 2014 porta nel suo contrassegno la "pulce" di An in base ai pronunciamenti delle due assemblee (2013 e 2015) della Fondazione An. Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni devono prepararsi ad abbandonare il simboletto di An? Non è detto. Come è noto, per il Viminale e per i giudici che di volta in volta si sono espressi su questioni simili - a partire dalla storia infinita legata allo scudo crociato - la tutela civile del simbolo (come quella azionata in questa causa) è una cosa, quella elettorale è un'altra e segue regole diverse, speciali. Da molti anni a questa parte viene tutelato soprattutto il simbolo di chi sta in Parlamento e Fratelli d'Italia è presente alla Camera. La Cannizzaro, dalla sua, potrebbe utilizzare almeno un paio di argomenti: Fdi non ha avuto eletti a Montecitorio, Palazzo Madama o Strasburgo con il simbolo contenente la fiammella (adottata nel 2014 per le europee, ma il partito non ha superato lo sbarramento) e, soprattutto, non ha un uso che possa dirsi realmente "tradizionale" (visto il breve tempo di utilizzo); il Nuovo Msi, al contrario, pur non avendo mai avuto accesso a competizioni politiche nazionali, è riuscito a presentarsi più volte con quel simbolo a livello locale. L'unica certezza, forse, è che il contenzioso non è affatto concluso: per l'ennesima volta, la lite s'inFiamma...
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