Un simbolo alternativo di Fascismo e libertà |
Tra i profili di sicuro interesse del procedimento elettorale preparatorio che inizierà venerdì con l'apertura del deposito dei contrassegni al Ministero dell'interno, uno riguarderà gli spazi concessi agli emblemi di liste e formazioni che si richiamano, in un modo o nell'altro, all'esperienza o alla simbologia fascista. Uno spazio che, in queste elezioni politiche, sembra essere ancora più ridotto rispetto al solito.
A indicarlo sono soprattutto le Istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature, messe a punto dalla Direzione centrale dei Servizi elettorali del Viminale e divulgate nei giorni scorsi. Quelle istruzioni, ovviamente, non hanno valore di legge, ma sono compilate tenendo conto sia delle fonti normative, sia dei casi che si sono presentati via via all'attenzione dello stesso ministero, degli uffici elettorali periferici e della magistratura: anche per questo, il contenuto del documento è in evoluzione tra un elezione e l'altra e ogni nuova edizione aggiornata comprende sempre nuovi aggiustamenti.
Rispetto all'edizione del 2013, in particolare, spicca l'inserimento di un paragrafo intitolato Divieto di contrassegni che fanno riferimento ad ideologie di stampo fascista o nazista. Così si legge nella guida ministeriale:
Sono tassativamente vietati i contrassegni in cui siano contenute parole, espressioni, immagini, disegni o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie: per esempio, le parole «fascismo», «nazismo», «nazionalsocialismo» e simili, nonché qualunque simbologia che richiami anche indirettamente tali ideologie. Infatti, la presentazione dei contrassegni che contengono, anche in parte, tali elementi, parole o simboli deve considerarsi vietata a norma della XII disposizione transitoria e finale, primo comma, della Costituzione e dalla legge 20 giugno 1952, n. 645, e successive modificazioni.
L'aggiunta, con tutta probabilità, è stata decisa dopo il clamore suscitato lo scorso anno dal caso del comune mantovano di Felonica e Sermide, in cui la lista Fasci italiani del lavoro (dopo essersi presentata dal 2002 sempre a Sermide con lo stesso simbolo senza avere eletti) nel 2017 è riuscita ad avere una propria rappresentante in consiglio comunale, attirando su di sé l'attenzione dei media e di alcune forze politiche. In realtà, anche se le guide ministeriali non ne parlavano, la Direzione centrale dei servizi elettorali si è dimostrata piuttosto severa in materia - e di fatto ha mostrato di non aver mai cambiato idea - fin dal 1992.
in quell'anno, infatti, bocciò il simbolo del Movimento fascismo e libertà - fondato l'anno prima da Giorgio Pisanò - pur in mancanza di norme espresse, ma rifacendosi proprio alla XII disposizione finale della Costituzione e alla "legge Scelba"; la bocciatura si sarebbe ripetuta tutte le altre volte in cui la formazione tentò di presentare il simbolo a livello nazionale, tranne che nel 2006, anno in cui fu accettato un emblema in cui erano coperti la parola fascismo e buona parte del disegno del fascio.
Quasi dall'inizio, però, si è verificata a livello locale una minore rigidità nella valutazione degli emblemi: il problema, in fondo, è stato creato sempre dalla parola "Fascismo", quasi mai ammessa, mentre è capitato in varie altre occasioni che contrassegni contenenti solo il fascio o con riferimenti testuali non direttamente riconducibili al fascismo fossero ammessi, se non altro perché - come detto dal Consiglio di Stato in un parere del 1994 - il fascio come simbolo non è univocamente legato al fascismo, ma esisteva ben prima. Nel tempo è capitato in vari comuni - di solito piuttosto piccoli, in cui magari non c'era bisogno di raccogliere le firme - che il fascio finisse sulla scheda, generalmente con protesta di alcuni elettori e interrogazioni rivolte ai ministri, ma senza che le conseguenze andassero oltre. A livello locale, dunque, gli emblemi con il fascio - purché non ci fosse la parola "fascismo" - hanno avuto un certo spazio, mentre a livello nazionale non ne hanno avuto quasi nessuno.
Il Ministero dell'interno, di più, ritiene si debbano richiamare "in toto le sentenze del Consiglio di Stato, Quinta Sezione, 6 marzo 2013, nn. 1354 e 1355". Si tratta di due sentenze emesse a proposito delle elezioni amministrative svoltesi nel comune di Montelapiano, in provincia di Chieti, nel 2012: un episodio certamente minore, ma che rappresenta la decisione più recente e dell'organo più elevato in materia di contrassegni (al di là dell'Ufficio elettorale centrale nazionale che però, negli ultimi anni, non ha avuto occasione di esprimersi in materia, visto che l'ultima presentazione nazionale di un contrassegno con un fascio risale al 2006 e in quell'occasione fu ammesso, ma modificato nel modo che si dirà).
In quell'occasione, la sottocommissione elettorale di Atessa aveva prima invitato alla sostituzione del simbolo originale di Fascismo e libertà per poi bocciare anche il contrassegno sostitutivo, che conservava il fascio ma lo sostituiva con la sigla MFL (e proprio per questo si riteneva contenesse ancora "un chiaro riferimento al partito fascista la cui riorganizzazione è vietata"); a quel punto non fu nemmeno presa in considerazione la proposta di un terzo contrassegno (il fascio con la sigla PSN, ossia Partito socialista nazionale), ritenendo che i presentatori della lista avessero esaurito le possibilità loro concesse. Ciò fu confermato dal Tar di Pescara una volta che la referente locale di Fascismo e libertà impugnò la proclamazione degli eletti, ma gli stessi giudici amministrativi annullarono la consultazione elettorale ritenendo illegittima l'esclusione della lista: nella sentenza si legge che le disposizioni sul procedimento elettorale locale "non fanno cenno alcuno alla possibile valutazione circa il valore politico, democratico o meno, del simbolo presentato, da parte della Sottocommissione circoscrizionale, anche perché trattasi di una discrezionalità che va oltre i tipici aspetti amministrativi; il legislatore ha fatto una elencazione puntuale e tassativa che l’organismo amministrativo è tenuto a rispettare".
La decisione fu ovviamente impugnata e il Consiglio di Stato accolse il ricorso, "convalidando" le elezioni e l'operato della Commissione, così spiegando (la citazione è lunga ma è opportuno riportarla per intero):
[...] il diritto di associarsi in un partito politico, sancito dall’art. 49 Cost., e quello di accesso alle cariche elettive, ex art. 51 Cost., trovano un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista imposto dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere e democratiche dinamiche. Va soggiunto che l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teleologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzate alla ricostituzione di un’associazione vietata ma deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista.Tale essendo il quadro costituzionale entro il quale si iscrive la disciplina che regola il procedimento elettorale e che fissa i poteri delle commissioni elettorale, si deve ritenere che gli articoli 30 e 33 del d.P.R. n. 570/1960 fissino i casi di esclusione e di correzione dei contrassegni e delle liste elettorali presupponendo implicitamente la legittimazione costituzionale del movimento o partito politico alla stregua della XIII [sic!] disposizione di attuazione e transitoria della Costituzione. In altri termini la normativa in parola, nello stabilire i casi di ricusazione dei contrassegni e delle liste, si riferisce a situazioni in astratto assentibili sul piano della superiore normativa costituzionale senza fungere da garanzia per situazioni già vietate, in via preliminare e preventiva, dall’ordinamento costituzionale. L’impossibilità che il movimento o l’associazione a cui si riferisce il simbolo o la lista partecipi alla vita politica postula quindi, in via implicita ma necessaria, il potere della Commissione di ricusare la lista o i simboli attraverso i quali si persegue il fine originariamente vietato dall’ordinamento giuridico.In conformità questo Consiglio di Stato, con parere della sez. I, 23 febbraio 1984 [sic!], n. 173/94, ha sottolineato l’impossibilità che un raggruppamento politico partecipi alla competizione elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione.La disciplina recata dagli artt. 30 e seguenti del d.P.R. 16 maggio 1970, n. 570 va quindi letta e integrata alla luce della disciplina costituzionale che, dettando un requisito originario per la partecipazione alla vita politica, fonda il potere implicito della Commissione di ricusare le liste che si pongano in contrasto con detto precetto.Tanto premesso si deve concludere per la legittimità del provvedimento impugnato con cui la Commissione elettorale, facendo uso di un potere attribuito dal sistema normativo, ha disposto l’esclusione della lista sulla scorta di un’adeguata motivazione in merito al contrasto con la disciplina costituzionale, in ragione del simbolo del movimento (il fascio), della dizione letterale (acronimo di Fascismo e Libertà) e del richiamo ideologico al disciolto partito fascista.
Ora, cosa dice esattamente la sentenza? Essenzialmente che, anche se nessuna norma lo prevede espressamente, una commissione elettorale può ricusare un contrassegno ove ritenga che si richiami "esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione". Basta per dire che un simbolo che contiene un fascio è fascista e dunque è illegittimo? Per alcuni è ovvio, in realtà non lo è affatto. Innanzitutto, lo stesso Consiglio di Stato ha citato il suo parere di quasi vent'anni prima per fondare la propria decisione, ma è stato lo stesso parere ad ammettere l'uso del fascio purché disgiunto dalla parola "fascismo".
Quanto scritto dal Ministero, invece, sembra decisamente più ampio, visto il riferimento a "parole, espressioni, immagini, disegni o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie" e a "qualunque simbologia che richiami anche indirettamente tali ideologie"; anche quel testo, tuttavia, non è privo di ambiguità. "Un appello 'forza Putin' a giudizio di molti sarebbe legato a un regime autoritario", nota Cesare Maffi su Italia Oggi, mettendo dunque in luce il rischio di leggere in modo parziale il concetto di "ideologie autoritarie" o, al contrario, di doverlo interpretare in modo molto/troppo ampio. Lo stesso Maffi, peraltro, bolla come "ridondanza fuori luogo" la frase in cui si dice che quei contrassegni "sono tassativamente vietati": "un divieto - spiega - è tale, senza bisogno di aggettivi o avverbi superflui, come 'severamente' o 'rigorosamente' o simili, altrimenti non sarebbe un divieto".
Avrebbe anche ragione, ma quell'avverbio per il giurista rappresenta un ulteriore problema: in linguaggio tecnico, infatti, la "tassatività" non si riferisce affatto all'assolutezza di un divieto, bensì alla necessità che il legislatore determini con il massimo della precisione il comportamento da considerare illegittimo, proprio per evitare che gli interpreti esercitino troppo la fantasia. Questo vale sicuramente in diritto penale, ma non si può ignorare il significato di quella parola negli altri ambiti del diritto. Da ultimo, resta il problema della riconoscibilità: cosa succede se il riferimento all'ideologia autoritaria non è manifesto e la commissione non se ne accorge? E' capitato, per esempio, con il Movimento nazionalsocialista dei lavoratori: in molti hanno visto in questo un riferimento all'esperienza politica di Hitler, ma varie commissioni elettorali l'hanno ammesso in piccoli comuni. I componenti delle varie commissioni elettorali dovranno mettere in preventivo un corso di storia moderna e contemporanea?
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