A scorrere la lista infinita dei candidati alle prossime elezioni, non troverete il suo nome da nessuna parte: non in una listina bloccata di qualche partito (men che meno del suo, che non si vedrà proprio a queste elezioni), nemmeno nel più sperduto e perdente collegio uninominale di tutto il paese. Nessuna traccia, ai blocchi di partenza della XVIII legislatura, di Mario Mauro, che pure per il suo sito - oltre che presidente dei suoi Popolari per l'Italia - risulta ancora ministro della difesa: quella poltrona ministeriale, se di certo fu l'apice della carriera del politico di San Giovanni Rotondo, di fatto ne rappresentò anche l'inconsapevole inizio della fine.
La mancata ricandidatura di Mauro ne è il suggello, ma da sola non dà conto del percorso del senatore uscente e non rientrante, partito dalla corte berlusconiana e concluso quasi al punto di partenza (che nel frattempo non era più il Pdl, ma la ridestata Forza Italia) e passato attraverso l'adesione convinta all'agenda di Mario Monti e la successiva fondazione di un partito mai davvero decollato e che aveva iniziato presto a perdere pezzi per strada: a voler essere tecnici (in omaggio all'ex commissario europeo) si è trattato di scissioni, ma chi vive visceralmente la politica parlerebbe di un doppio tradimento, prima di Berlusconi (solo in parte compensato dal "ritorno a casa", peraltro senza prospettiva di seggi) e poi di Monti.
Il caso dell'ex ministro della difesa, tuttavia, è stato tutto meno che isolato. Per avere una buona guida alla "Repubblica fondata sul tradimento", la cui forma politica privilegiata è il trasformismo, si può sfogliare State sereni (Iuppiter edizioni, 157 pagine, 14 euro), il libro appena pubblicato da Carlantonio Solimene, redattore politico del Tempo e appassionato osservatore anche di personaggi ed episodi che solo sbrigativamente - e da chi non appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica - possono essere definiti "minori". Se il titolo infatti allude all'ormai memorabile hashtag renziano #Enricostaisereno (che precedette di pochi giorni la mozione dello stesso Renzi, approvata in direzione Pd, che chiedeva un nuovo governo per il paese accompagnando alla porta Enrico Letta: ma guai a parlare di fregatura al segretario dem, per lui non ci fu nulla di tutto questo), la frase è volta al plurale perché nel libro si preferisce puntare lo sguardo su altre storie di voltafaccia di cui la XVII legislatura della Repubblica italiana è stata ricca - 566 cambi di casacca operati da 347 parlamentari, alcuni dei quali dunque hanno migrato più di una volta - quasi a involontaria consacrazione dell'immortale massima "questi so’ tutti malviventi, questi pensano solo ai cazzi loro" pronunciata a dicembre del 2011, nel mandato parlamentare precedente, da Antonio Razzi (che, dopo aver lasciato l'Italia dei valori, non ha mai-proprio-mai tradito Silvio Berlusconi) e significativamente citata da Solimene all'inizio della sua premessa.
Si diceva di Mario Mauro, che apre il libro e per l'autore, alle trattative propedeutiche al governo Letta, "entrò da mediatore e ne uscì ministro": Mauro era stato tre volte eurodeputato nell'orbita berlusconiana (due per Forza Italia, una per il Pdl), forte anche dell'appoggio di Comunione e liberazione, utile pure per diventare senatore nel 2013 con la lista Con Monti per l'Italia. Mauro aveva iniziato ad appoggiare Monti alla fine del 2011; un anno dopo era ufficialmente passato con lui, fu tra i pochi eletti della nuova compagine e ottenne il ruolo di "saggio" per le riforme e il dicastero della difesa del governo Letta, cui fu fedele molto più che al progetto montiano. Al punto da uscire da Scelta civica e fondare i suoi Popolari per l'Italia, sfoderando un concerto tricolore di frecce, senza preoccuparsi del precedente grafico poco felice di Fare per Fermare il declino.
Quel simbolo, presentato l'8 febbraio 2014, nelle consultazioni successive si vide ben poco sulle schede elettorali e, soprattutto, non apparve proprio nelle bacheche del Viminale preparatorie alle elezioni europee. La soglia del 4% era un ostacolo arduo per tutti, Mauro compreso, così lui aveva cercato un accordo con l'Udc di Lorenzo Cesa e il 19 marzo era stato persino presentato un simbolo composito, in cui le frecce dei Popolari per l'Italia erano un po' sacrificate ma c'erano; evidentemente, però, l'asticella del 4% restava troppo lontana sia per quel cartello, sia per gli alfaniani del Nuovo centrodestra: il 5 aprile, il giorno prima del deposito dei simboli al Viminale, fu presentato il nuovo emblema composito di Ncd e Udc, graficamente orribile, ma soprattutto senza la minima traccia visiva del partito guidato da Mauro, la cui presenza parlamentare si sarebbe rarefatta sempre di più, fino al passaggio all'opposizione a giugno del 2015, preludio a un lento e silenzioso ritorno verso Forza Italia, senza riflettori e, soprattutto, senza proposte di seggi.
Quella di Mauro non è l'unica storia di tradimenti politici ad avere anche un lato simbolico. Inevitabile pensare al capitolo "Una mamma per nemica", dedicato alla tragicommedia delle candidature di centrodestra per il comune di Roma nel 2016, dominato - qui emerge l'esperienza maturata da Solimene nei vari anni in cui ha seguito per Il Tempo ogni movimento o fibrillazione della destra, romana e nazionale - dalla dialettica conflittuale tra Andrea Augello e Fabio Rampelli, cresciuti tra Msi e An ma attestatisi su posizioni ben distinte. Quando, dalla centrifuga dei nomi, è spuntato quello di Francesco Storace, questi ha dovuto scontare i no di Rampelli e della presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni: gli stessi, guarda caso, che all'assemblea dei soci della Fondazione Alleanza nazionale della fine del 2013 erano riusciti a far assegnare a Fdi l'uso temporaneo del simbolo di An, anche solo per evitare che ne fruissero Storace e alcuni altri; sempre Rampelli e Meloni, a ottobre del 2015, sono riusciti a rendere quasi indefinita la durata della concessione dell'emblema di An, respingendo il tentativo di Gianni Alemanno (da sempre vicino a Storace) di far finanziare dalla fondazione la nascita di un nuovo grande partito di destra. Fallito questo disegno, anche gli spazi per Storace si erano ristretti molto: delle due liste immaginate in un primo tempo, il fondatore della Destra ne presenterà una sola, ma in appoggio ad Alfio Marchini, non di Meloni che intanto aveva accettato la "corsa al Campidoglio" a dispetto della gravidanza (e per scoraggiare pure la candidatura a sindaco dello stesso Storace).
Volendo, passa attraverso un simbolo - il faro della fondazione Ricostruiamo il paese - anche la storia di Flavio Tosi, che nel 2012 aveva creato un "modello Verona" (un po' politico, molto civico, assai personale) e in quello stesso anno - da segretario della Liga Veneta - aveva fatto eleggere segretario federale della Lega Nord Roberto Maroni, lavorando col segretario della Lega Lombarda Matteo Salvini: con lui, anzi, aveva stretto un accordo (sotto gli auspici dello stesso Maroni), in base al quale Salvini avrebbe corso per la segreteria federale, mentre il sindaco di Verona avrebbe avuto - così scrive Solimene - "la ribalta nazionale", magari la corsa per Palazzo Chigi. Dopo che però alle europee 2014 Salvini aveva preso più voti di Tosi e la Lega si era dimostrata assai più in salute di prima, il sindaco scaligero ha forzato la mano sulle regionali venete del 2015: prima ha provato a decidere per intero i candidati a sostegno della riconferma di Luca Zaia, poi - dopo l'ultimatum con cui Salvini intimava gli iscritti alla fondazione tosiana di scegliere tra quella "casa" e il Carroccio - si è candidato anche alla guida del Veneto, finendo però quarto e obbligato ad abbandonare la casa leghista. A quel punto, il faro di Ricostruiamo il paese è diventato il simbolo di Fare!, inutilmente schierato a favore del "sì" alla riforma costituzionale (su posizioni opposte rispetto alla Lega); la sua luce, poi, è uscita offuscata dalle nuove elezioni amministrative veronesi, segnate dalla sconfitta della compagna di Tosi (impossibilitato al terzo mandato), Patrizia Bisinella. Alle politiche del 2018, il simbolo di Fare non è nemmeno stato presentato, stemperato nel blu del cartello Noi con l'Italia - Udc.
Simboli a parte, tra chi ha lasciato la corte di Berlusconi Solimene pesca le storie di Sandro Bondi e Paolo Bonaiuti, due alter ego del Capo finiti in disgrazia. Il primo, dalla "materia così versatile" da "restare al fianco del Cavaliere sopportandone e supportandone i continui cambi d’umore e di linea", è decaduto dopo il 23 aprile 2014 (dopo aver scritto sulla Stampa che Berlusconi, per il bene del centrodestra, avrebbe dovuto sostenere il rinnovamento di Renzi) per poi finire nell'anonimato (un po' per scelta sua, molto per scelta degli ex compagni di Forza Italia, lasciata a marzo del 2015) con la compagna Manuela Repetti, titolari di un nome - Insieme per l'Italia - privo di partito e di simbolo (al punto che questo sito ha voluto dargliene uno, a loro insaputa); il secondo, dopo diciott'anni passati a fianco dell'ex Cavaliere (soprattutto come consigliere e portavoce), ha abbandonato Forza Italia - direzione Alfano - nell'aprile del 2014 dopo un anno di progressivo isolamento, iniziato dopo il disaccordo sulla linea aggressiva contro il capo dello Stato "nella speranza di allentare la tenaglia giudiziaria che si stava stringendo intorno al Cavaliere". Ma quando a luglio del 2017 Bonaiuti ha compiuto 77 anni, la telefonata di Silvio è arrivata: per qualcuno era l'anticamera del ritorno in Forza Italia, ma di più non si sa.
Non è però necessario cambiare casacca per finire sul taccuino degli #statesereni: il libro estrae dal buio recente le vicende della dem Alessandra Moretti. Lei, miracolata bersaniana della prim'ora (fino al suo "no" pubblico a Marini al Quirinale, che pure era stato proposto da Bersani, e al suo sostegno fallimentare a Cuperlo nella lotta per la segreteria Pd vinta da Renzi), atterrò su un seggio a Strasburgo nel 2014 grazie a una valanga di preferenze, ma uscì con le ossa rotte dalle elezioni regionali in Veneto l'anno dopo (con la campagna elettorale iniziata nel peggiore dei modi per l'immagine, con il manifesto dello "stile Ladylike" che aveva fatto infuriare pure varie donne dem, non solo l'austera Rosy Bindi) per poi finire sempre più in ombra, anche per essere stata a un matrimonio in India quando avrebbe dovuto essere in consiglio regionale.
Altri invece "tradiscono" proprio perché mantengono la stessa bandiera, invece che seguire una persona molto vicina che fonda un nuovo partito: rientra tra questi Francesco Paolo Sisto, eletto deputato per il Pdl grazie a Raffaele Fitto, ma rimasto in Forza Italia anche dopo la nascita dei Conservatori e riformisti (poi Direzione Italia), interrompendo un rapporto consolidato con l'ex presidente della Puglia e mancando per soli 60 voti l'elezione a giudice costituzionale in quota Fi.
Non manca un riferimento ai fuoriusciti dal MoVimento 5 Stelle, non pochi ma nemmeno troppi (40 su 162), rispetto alle quote dei cambiacasacca di altre forze politiche e rispetta a quanto si prospettava in un primo tempo. Si va così dal primo parlamentare espulso per presenzialismo televisivo (Marino Mastrangeli, "al 313° posto su 315 senatori" quanto a produttività per Openpolis e mai primo firmatario di un disegno di legge) alla deputata uscita da un gruppo diventato per lei troppo violento verbalmente (Gessica Rostellato, che nei suoi primi giorni da deputata non aveva stretto la mano a Rosy Bindi e nel 2015, dopo aver fondato il gruppo dissidente di Alternativa libera, era finita proprio nel gruppo dem), passando per chi ha contestato la restituzione di parte dello stipendio parlamentare e per chi, come Walter Rizzetto, finisce nel gruppo di Fratelli d'Italia dopo aver auspicato a lungo - e in dissenso rispetto ai vertici e alla base stellata - un dialogo M5S-Pd. Per non parlare dell'affaire informatico, mai del tutto chiarito (si rinvia al libro per capirne di più), che sarebbe stato alla base dell'espulsione del deputato toscano Massimo Artini.
Un capitolo, poi, è dedicato al destino della riforma costituzionale, caduta sotto i colpi del referendum del 4 dicembre 2016, ma prima ancora per "la metamorfosi di decine di sinceri riformisti in accaniti difensori della Costituzione più bella del mondo". La riforma, infatti, è stata abbandonata prima da Forza Italia (l'aveva votata al primo passaggio parlamentare, ma ha cambiato idea dopo l'elezione di Mattarella al Quirinale senza che fosse concordata), poi dalla minoranza bersaniana dem (che fece campagna per il "no", pur avendo votato quasi per intero a favore).
Ce n'è soprattutto per due persone: Renato Schifani, ex Pdl migrato tra gli alfaniani, tra le cui file ha votato la riforma ("per disciplina di partito", assicura), poi divenuto coordinatore del "no" dopo il suo ritorno a Forza Italia; e per Gaetano Quagliariello (già radicale, in seguito molto più simile a un teo-con), che per Solimene rappresentava "lo zenit e il nadir della riforma costituzionale, il principio e la fine, l’autore e l’oppositore", essendo stato prima demiurgo del nuovo testo come "saggio" e ministro ad hoc del governo Letta, poi - complice anche il suo mancato ritorno nella compagine di governo con Renzi? - strenuo contestatore delle modifiche proposte, dal nuovo "palco" di Idea.
Ce n'è anche per Michele Emiliano, per mesi tra i più strenui oppositori di Matteo Renzi all'interno del Pd e poi improvvisamente - alla vigilia della scissione dei futuri componenti di Articolo 1 - Mdp - sfilatosi dal progetto di "Cosa rossa": per Solimene è fortissimo il sospetto che non volesse trovarsi a disagio in una compagine molto a sinistra (lui che di sinistra non era mai stato), per di più come una sorta di "prestanome" di Massimo D'Alema, dopo aver stipulato con lui un "matrimonio di convenienza" che lo avrebbe aiutato a diventare sindaco di Bari, salvo poi entrare in rotta di collisione con lui già dalle regionali 2005 vinte da Nichi Vendola. Era stato decisamente migliore il rapporto con Renzi, incrinato però nel 2014 dalla mancata nomina a ministro e dal non inserimento come capolista alle europee; dopo la vittoria facile alle regionali del 2015 in Puglia, il rapporto sembrava definitivamente guastato a causa del gasdotto Tap, che Emiliano non voleva far arrivare nel leccese (ma il governo sì), e soprattutto dei referendum sulle trivelle (che ha visto una sorta di corpo a corpo Renzi-Emiliano) e sulla riforma costituzionale, che ha riunito il presidente della Puglia e D'Alema sullo stesso fronte. Tutti si aspettavano che guidasse la scissione assieme a Roberto Speranza e al collega presidente toscano Enrico Rossi, ma il passo indietro in extremis ha spiazzato molti; la battaglia (fallimentare) del congresso Pd, stravinto da Renzi e con Emiliano al 10%, avrebbe ridimensionato di molto le ambizioni dell'ex magistrato.
Nel volume c'è persino un cammeo di chi è stato considerato "traditore" probabilmente senza essere davvero nato politicamente: è il caso dei fratelli Andrea e Luca Zappacosta, i "falchetti" sostenuti e benedetti da Daniela Garnero, nota Santanchè dalla fine del 2013, quando il Pdl stava per essere archiviato definitivamente e Berlusconi si doleva di avere troppo delegato ad altri la gestione del partito. La loro creatura, l'associazione Azzurra libertà varata nella primavera del 2014, è arrivata però presto allo scontro con l'organizzazione giovanile "ufficiale" (prima del Pdl e poi di Forza Italia) guidata da Annagrazia Calabria, che invitava alla gavetta i "falchetti", senza che questi volessero saperne; tutto sarebbe naufragato un anno dopo, con parole al veleno nei confronti dello stesso Berlusconi e della sua compagna, Francesca Pascale.
Se, alla fine del libro (ben scritto, mai pedante e con attenzione), lo stomaco non si è ancora guastato per l'atmosfera da "fratelli coltelli" ed è rimasta la voglia di approfondire, si può affrontare l'ultimo capitolo di "Istruzioni per il futuro", con cui si cerca di capire come dare una regolata ai fenomeni trasformistici che rischiano di prodursi anche nella prossima legislatura (soprattutto se una maggioranza chiara non uscirà dalle urne). Attraverso l'opinione autorevole di tre costituzionalisti (Stefano Ceccanti, Alfonso Celotto e Salvatore Curreri) si analizza soprattutto il nuovo regolamento del Senato, che non impedisce ovviamente agli eletti di abbandonare il proprio gruppo - sarebbe contrario all'articolo 67 della Costituzione, che vieta il vincolo di mandato imperativo - ma non consente la creazione di gruppi diversi da quelli formatisi in seguito alle elezioni, dunque con specifico riferimento a un simbolo nella consultazione: chi lascerà la propria casa di elezione, insomma, potrà andare solo in un gruppo già esistente o (alla peggio) nel gruppo misto e, in ogni caso, perderà le eventuali cariche interne già detenute in base all'appartenenza al gruppo precedente (vicepresidente dell'aula, segretario, questore...). E' ancora presto per dire se le nuove regole - non valide per la Camera - funzioneranno e, soprattutto, se saranno applicate in modo rigido o qualcuno ne suggerirà un ammorbidimento "costituzionalmente orientato"; di sicuro, del problema dei cambi di casacca (e della tutela dei dissidenti, che non è giusto ritrarre automaticamente come novelli Giuda) si parlerà ampiamente nella legislatura in preparazione, #statesereni.
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