Tornare finalmente a votare tutti insieme, per decidere il futuro. Era questo il messaggio per il quale, il 2 e il 3 giugno 1946, quasi 25 milioni di italiani - poco più dell'89% degli aventi diritto - si misero in fila davanti ai seggi in tutta l'Italia per scegliere tra monarchia e repubblica e indicare i membri dell'Assemblea costituente. Quest'ultimo voto passava per forza attraverso i simboli delle liste: lo scudo crociato ottenne oltre 8,1 milioni di voti; falce e martello ne presero oltre 9, divisi tra le schede votate per il Psiup (oltre 4,7 milioni) e quelle assegnate al Pci (oltre 4,3 milioni).
Accanto a quegli emblemi così noti e ad altri conosciuti in tutta l'Italia ne comparvero molti, alcuni dei quali noti solo in piccole parti d'Italia. Apparvero sulle schede e, prima ancora, sui manifesti affissi un po' dappertutto, persino vicino all'entrata dei seggi, tanta era la foga di partecipare (e allora si era ritenuto opportuno non imbrigliarla in regole): li vedevano elettori, elettrici, le poche persone che non avrebbero votato e anche chi non aveva ancora l'età per dire la sua. Li vide anche un bambino, che ancora non sapeva che da grande avrebbe dedicato gran parte della sua vita alla bandiera rossa con falce, martello e stella d'Italia. A chi gli chiedeva chi avrebbe voluto votare, lui rispondeva convinto: "Per il galluccio!". Già, perché sulle schede, quella volta, finì anche un "galluccio" (iallucc, in quel dialetto), ma lo videro solo gli elettori delle province di Bari e di Foggia. Chi rappresentava quell'immagine? E come mai apparve solo lì?
Contavano innanzitutto i voti ottenuti dalle liste in ciascuno dei collegi, disegnati in modo che - Valle d'Aosta a parte, in cui da sempre si elegge un solo rappresentante - si potessero eleggere almeno 7 deputati: anche nei collegi minori c'era spazio per rappresentare le minoranze rilevanti. Per la distribuzione si utilizzò il metodo del quoziente: prima si ricavava - si vedrà come - il quoziente, cioè il numero di voti necessari per ottenere un seggio nel singolo collegio, poi si divideva il numero di voti ottenuti da ciascuna lista per quel quoziente, ottenendo così - come risultato intero - il numero di seggi da assegnare direttamente alla singola lista in quel collegio.
Con quelle operazioni matematiche, però, è difficile riuscire ad assegnare tutti i seggi di ciascun collegio: spesso avanzano dei seggi, mentre è normale che per ogni lista avanzino dei "resti", cioè dei voti che non hanno prodotto alcun seggio (corrispondenti, appunto, al resto dell'ultima divisione a risultato intero), così la legge scelse due soluzioni. Innanzitutto, per ridurre il numero di seggi non assegnati collegio per collegio, si adottarono due diverse formule proporzionali, legate al modo di calcolare il quoziente: nei collegi in cui si distribuivano fino a 20 seggi, si applicò la formula Hagenbach-Bischoff, in base alla quale il quoziente si calcola dividendo il totale dei voti espressi in quel collegio per il numero dei seggi da distribuire lì aumentato di uno; nei collegi in cui si assegnavano più di venti seggi, si adottò invece la formula Imperiali, che prevede il meccanismo già visto, ma il totale dei voti ottenuti dalle liste nel collegio dev'essere diviso per il numero dei seggi da distribuire aumentato di due. Quasi certamente alcuni seggi, nei vari collegi, sarebbero comunque rimasti non assegnati: questi sarebbero stati redistribuiti in un collegio unico nazionale, sommando per ciascuna lista i "resti" ottenuti collegio per collegio. Avrebbero potuto presentare liste nel collegio unico nazionale le forze politiche che fossero riuscite a presentarsi almeno in dodici collegi plurinominali su 31 (ma in realtà su 30, perché nel collegio Trieste - Venezia Giulia - Zara, in quanto zona di frontiera non sotto il controllo italiano, non furono nemmeno convocati i comizi elettorali, come accadde pure nella provincia di Bolzano).
Le regole utilizzate per determinare i collegi e trasformare i voti in seggi hanno sempre anche delle ricadute sui simboli utilizzati: in quel caso fu particolarmente vero, infatti era stato previsto un doppio livello di deposito dei contrassegni elettorali. Il primo, centralizzato presso il ministero dell'interno, riguardava gli emblemi destinati al collegio unico nazionale, oltre che ai collegi territoriali: il deposito poteva avvenire "non oltre il sessantaduesimo giorno anteriore a quello della votazione" e, in caso di contrassegni identici o facilmente confondibili con altri, il Viminale avrebbe invitato i depositanti a sostituirli entro 48 ore (per quelle prime elezioni si accettarono anche somiglianze non troppo marcate, per limitare al minimo le esclusioni; non c'erano poi altre regole, per esempio il divieto di simboli religiosi). Le candidature locali, però, allora come oggi si presentavano nei singoli collegi plurinominali territoriali, precisamente "alla cancelleria della Corte di appello o del Tribunale [...] non più tardi delle ore 16 del quarantacinquesimo giorno anteriore a quello della votazione".
Insieme ai documenti richiesti per la lista, comprese le firme degli elettori sostenitori (da 500 a 1000 per collegio), bisognava anche dare un simbolo alla lista e le alternative erano due: indicare uno dei simboli già depositati presso il Ministero dell'interno, dichiarando così contemporaneamente a quale forza politica sarebbero finiti i "resti" da rimettere in gioco nel collegio unico nazionale, oppure presentare in loco "un modello di contrassegno, anche figurato", dunque nuovo rispetto a quelli già ricevuti dal Viminale (e che ovviamente non avrebbe dovuto essere facilmente confondibile con quelli). In quell'occasione (ma la cosa si sarebbe ripetuta anche per le elezioni politiche del 1948 e del 1953) fu dunque possibile utilizzare un simbolo anche in un solo collegio. Così, per vedere l'effetto che faceva o avendo quasi la certezza che una forza politica radicata in quel luogo, pur presentandosi solo lì, avrebbe conquistato un eletto.
In effetti la presenza del "galluccio" sulle schede per la Costituente del collegio di Bari-Foggia si può spiegare proprio così; per avere un quadro più completo, tuttavia, occorre allargare un po' lo sguardo anche fuori dai confini della Puglia. Consultando il sito dell'Archivio storico delle elezioni del Ministero dell'interno, si può scoprire oggi che la lista era denominata Alleanza repubblicana italiana e allora in quel collegio ottenne oltre 29mila voti (10mila in più rispetto al Partito repubblicano italiano), pari al 3,64%; a dispetto del buon risultato, però, non ottenne nessuno dei 18 seggi assegnati a quel collegio plurinominale (ne ottenne uno l'Unione democratica nazionale - cartello costituito da Partito liberale italiano, Partito democratico del lavoro, Unione nazionale per la ricostruzione e Alleanza democratica della libertà - sfiorando i 60mila voti).
Spulciando poco lontano, peraltro, si scopre che una lista denominata "Alleanza repubblicana italiana" era presente anche nel vicino collegio della Basilicata. Che si tratti dello stesso gruppo politico lo dimostra il fatto che i nomi di alcuni candidati erano presenti in entrambe le liste: era il caso di Guido Dorso (ben piazzato in Puglia pur essendo avellinese), Manlio Rossi Doria e soprattutto Michele Cifarelli. La lista, però, in Lucania si contraddistinse con una foglia d'edera bianca su fondo scuro, che richiamava maggiormente le idee repubblicane (ma il fondo scuro bastava a non confondere il contrassegno con quello del Pri, ugualmente presente in quel collegio e più votato. 7644 voti contro 5340).
Perché lo stesso gruppo politico ebbe due simboli diversi? La scelta si potrebbe spiegare immaginando che luoghi diversi avessero tradizioni diverse e, dunque, i presentatori avessero tentato di cavalcarle entrambe, presentando due simboli diversi pur sapendo che si sarebbe dovuto rinunciare al recupero dei "resti" a livello nazionale. Probabilmente alla base dell'Alleanza repubblicana italiana ci fu la scissione consumatasi nel Partito d'azione all'inizio di febbraio del 1946. Ciò che era rimasto del partito "ufficiale" aveva mantenuto il simbolo tradizionale della spada di fiamma - quella del movimento e delle brigate partigiane Giustizia e Libertà.
La componente liberaldemocratica, in cui stavano tanto Ferruccio Parri, quanto alcuni dei futuri repubblicani più illustri (Ugo La Malfa e Bruno Visentini), nonché Altiero Spinelli, era fuoriuscita: alla Costituente quegli ex azionisti corsero come Concentrazione democratica repubblicana. Così andò un po' dappertutto, ma in Puglia e in Basilicata Michele Cifarelli - come si ricorda nel profilo biografico contenuto nella sua raccolta di diari Libertà vo cercando... (Rubbettino, 2004, a cura di Giancarlo Tartaglia) riuscì comunque a costituire liste unitarie dell'Alleanza repubblicana italiana. In Basilicata si occhieggiò forse alla maggior vicinanza ai repubblicani adottando l'edera; a Bari e Foggia si adottò invece il "galluccio", che sempre il libro curato da Tartaglia ricorda essere stato "l'antico simbolo della tradizione democratico-giacobina della Puglia". Non a caso, se si guarda al vicino collegio di Lecce - Taranto - Brindisi, si nota che sulle schede finì solo il simbolo del Partito d'azione, non presente nei due collegi visti prima.
Il sospetto che quelle liste unitarie, ma isolate non siano state del tutto opportune è piuttosto fondato: nessuna di queste ottenne eletti, il Partito d'azione ne ottenne solo sette, sempre meglio dei due ottenuti dalla Concentrazione democratica repubblicana. Quelle due formazioni, in ogni caso, durarono poco: già a settembre del 1946 la Concentrazione confluì nel Pri, mentre il Partito d'azione il 20 ottobre 1947 cessò di operare e i suoi iscritti entrarono nel Partito socialista italiano, che nel frattempo (dopo la nota scissione di Palazzo Barberini di alcuni mesi prima) aveva consegnato alla storia il nome del Psiup. Quel "galluccio" non apparve più sulle schede (non venne depositato tra i contrassegni per le prime elezioni politiche, quelle del 1948, per lo meno al Viminale), ma aveva fatto in tempo a radicarsi nella memoria di molti. Perfino quella di chi lo aveva visto avendo davvero pochi anni alle spalle..
Grazie di cuore a Bruno Magno per avermi dato lo spunto personale per ricostruire la vicenda (e a Michele Galante, che a lui aveva fornito i primi elementi per orientarsi).
Le immagini dei simboli depositati e utilizzati a livello locale sono tratte dal libro I nostri primi 50 anni curato da Maria Virginia Rizzo (Editrice CEL, 1996), reperibile ormai solo nelle librerie antiquarie, sui mercatini o nei siti di vendita di libri usati. Si segnala per correttezza che il libro ha "normalizzato" i contrassegni di quell'anno, inserendoli in un cerchio, per renderli omogenei a quelli adottati in seguito; in realtà però in quell'occasione sulle schede i contrassegni finirono quasi sempre privi di circonferenza (anche perché all'epoca si tendeva a utilizzare un disegno ben identificabile, non a riempire uno spazio con una grafica (peraltro in bianco e nero).
Accanto a quegli emblemi così noti e ad altri conosciuti in tutta l'Italia ne comparvero molti, alcuni dei quali noti solo in piccole parti d'Italia. Apparvero sulle schede e, prima ancora, sui manifesti affissi un po' dappertutto, persino vicino all'entrata dei seggi, tanta era la foga di partecipare (e allora si era ritenuto opportuno non imbrigliarla in regole): li vedevano elettori, elettrici, le poche persone che non avrebbero votato e anche chi non aveva ancora l'età per dire la sua. Li vide anche un bambino, che ancora non sapeva che da grande avrebbe dedicato gran parte della sua vita alla bandiera rossa con falce, martello e stella d'Italia. A chi gli chiedeva chi avrebbe voluto votare, lui rispondeva convinto: "Per il galluccio!". Già, perché sulle schede, quella volta, finì anche un "galluccio" (iallucc, in quel dialetto), ma lo videro solo gli elettori delle province di Bari e di Foggia. Chi rappresentava quell'immagine? E come mai apparve solo lì?
Calcoli e regole
La risposta alla seconda domanda, in effetti, va cercata nelle norme dettate per l'elezione dell'Assemblea costituente, cioè il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74. Per quell'elezione si cercò di agevolare la più ampia partecipazione. Dal lato attivo si fece leva sul senso del dovere di ciascuna persona: "L'esercizio del voto - si legge all'art. 1, comma 3 - è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese in un momento decisivo della vita nazionale"; venne prevista l'affissione per un mese nell'albo pretorio comunale dell'elenco di chi si era astenuto "senza giustificato motivo" e l'inserimento per cinque anni della dicitura "non ha votato" nei certificati di buona condotta. Dal lato passivo, non solo per eleggere padri e madri costituenti si scelse un sistema proporzionale, così da fotografare il più possibile le scelte degli elettori: si cercò anche di distribuire i seggi soprattutto sul territorio.I collegi del 1946 sulla Gazzetta Ufficiale |
Con quelle operazioni matematiche, però, è difficile riuscire ad assegnare tutti i seggi di ciascun collegio: spesso avanzano dei seggi, mentre è normale che per ogni lista avanzino dei "resti", cioè dei voti che non hanno prodotto alcun seggio (corrispondenti, appunto, al resto dell'ultima divisione a risultato intero), così la legge scelse due soluzioni. Innanzitutto, per ridurre il numero di seggi non assegnati collegio per collegio, si adottarono due diverse formule proporzionali, legate al modo di calcolare il quoziente: nei collegi in cui si distribuivano fino a 20 seggi, si applicò la formula Hagenbach-Bischoff, in base alla quale il quoziente si calcola dividendo il totale dei voti espressi in quel collegio per il numero dei seggi da distribuire lì aumentato di uno; nei collegi in cui si assegnavano più di venti seggi, si adottò invece la formula Imperiali, che prevede il meccanismo già visto, ma il totale dei voti ottenuti dalle liste nel collegio dev'essere diviso per il numero dei seggi da distribuire aumentato di due. Quasi certamente alcuni seggi, nei vari collegi, sarebbero comunque rimasti non assegnati: questi sarebbero stati redistribuiti in un collegio unico nazionale, sommando per ciascuna lista i "resti" ottenuti collegio per collegio. Avrebbero potuto presentare liste nel collegio unico nazionale le forze politiche che fossero riuscite a presentarsi almeno in dodici collegi plurinominali su 31 (ma in realtà su 30, perché nel collegio Trieste - Venezia Giulia - Zara, in quanto zona di frontiera non sotto il controllo italiano, non furono nemmeno convocati i comizi elettorali, come accadde pure nella provincia di Bolzano).
Regole e simboli
Carta della Costituente e i simboli nazionali |
Insieme ai documenti richiesti per la lista, comprese le firme degli elettori sostenitori (da 500 a 1000 per collegio), bisognava anche dare un simbolo alla lista e le alternative erano due: indicare uno dei simboli già depositati presso il Ministero dell'interno, dichiarando così contemporaneamente a quale forza politica sarebbero finiti i "resti" da rimettere in gioco nel collegio unico nazionale, oppure presentare in loco "un modello di contrassegno, anche figurato", dunque nuovo rispetto a quelli già ricevuti dal Viminale (e che ovviamente non avrebbe dovuto essere facilmente confondibile con quelli). In quell'occasione (ma la cosa si sarebbe ripetuta anche per le elezioni politiche del 1948 e del 1953) fu dunque possibile utilizzare un simbolo anche in un solo collegio. Così, per vedere l'effetto che faceva o avendo quasi la certezza che una forza politica radicata in quel luogo, pur presentandosi solo lì, avrebbe conquistato un eletto.
Alleanza repubblicana italiana: un gruppo, due simboli
Il territorio del collegio di Bari-Foggia |
Spulciando poco lontano, peraltro, si scopre che una lista denominata "Alleanza repubblicana italiana" era presente anche nel vicino collegio della Basilicata. Che si tratti dello stesso gruppo politico lo dimostra il fatto che i nomi di alcuni candidati erano presenti in entrambe le liste: era il caso di Guido Dorso (ben piazzato in Puglia pur essendo avellinese), Manlio Rossi Doria e soprattutto Michele Cifarelli. La lista, però, in Lucania si contraddistinse con una foglia d'edera bianca su fondo scuro, che richiamava maggiormente le idee repubblicane (ma il fondo scuro bastava a non confondere il contrassegno con quello del Pri, ugualmente presente in quel collegio e più votato. 7644 voti contro 5340).
Perché lo stesso gruppo politico ebbe due simboli diversi? La scelta si potrebbe spiegare immaginando che luoghi diversi avessero tradizioni diverse e, dunque, i presentatori avessero tentato di cavalcarle entrambe, presentando due simboli diversi pur sapendo che si sarebbe dovuto rinunciare al recupero dei "resti" a livello nazionale. Probabilmente alla base dell'Alleanza repubblicana italiana ci fu la scissione consumatasi nel Partito d'azione all'inizio di febbraio del 1946. Ciò che era rimasto del partito "ufficiale" aveva mantenuto il simbolo tradizionale della spada di fiamma - quella del movimento e delle brigate partigiane Giustizia e Libertà.
La componente liberaldemocratica, in cui stavano tanto Ferruccio Parri, quanto alcuni dei futuri repubblicani più illustri (Ugo La Malfa e Bruno Visentini), nonché Altiero Spinelli, era fuoriuscita: alla Costituente quegli ex azionisti corsero come Concentrazione democratica repubblicana. Così andò un po' dappertutto, ma in Puglia e in Basilicata Michele Cifarelli - come si ricorda nel profilo biografico contenuto nella sua raccolta di diari Libertà vo cercando... (Rubbettino, 2004, a cura di Giancarlo Tartaglia) riuscì comunque a costituire liste unitarie dell'Alleanza repubblicana italiana. In Basilicata si occhieggiò forse alla maggior vicinanza ai repubblicani adottando l'edera; a Bari e Foggia si adottò invece il "galluccio", che sempre il libro curato da Tartaglia ricorda essere stato "l'antico simbolo della tradizione democratico-giacobina della Puglia". Non a caso, se si guarda al vicino collegio di Lecce - Taranto - Brindisi, si nota che sulle schede finì solo il simbolo del Partito d'azione, non presente nei due collegi visti prima.
Il sospetto che quelle liste unitarie, ma isolate non siano state del tutto opportune è piuttosto fondato: nessuna di queste ottenne eletti, il Partito d'azione ne ottenne solo sette, sempre meglio dei due ottenuti dalla Concentrazione democratica repubblicana. Quelle due formazioni, in ogni caso, durarono poco: già a settembre del 1946 la Concentrazione confluì nel Pri, mentre il Partito d'azione il 20 ottobre 1947 cessò di operare e i suoi iscritti entrarono nel Partito socialista italiano, che nel frattempo (dopo la nota scissione di Palazzo Barberini di alcuni mesi prima) aveva consegnato alla storia il nome del Psiup. Quel "galluccio" non apparve più sulle schede (non venne depositato tra i contrassegni per le prime elezioni politiche, quelle del 1948, per lo meno al Viminale), ma aveva fatto in tempo a radicarsi nella memoria di molti. Perfino quella di chi lo aveva visto avendo davvero pochi anni alle spalle..
Grazie di cuore a Bruno Magno per avermi dato lo spunto personale per ricostruire la vicenda (e a Michele Galante, che a lui aveva fornito i primi elementi per orientarsi).
Le immagini dei simboli depositati e utilizzati a livello locale sono tratte dal libro I nostri primi 50 anni curato da Maria Virginia Rizzo (Editrice CEL, 1996), reperibile ormai solo nelle librerie antiquarie, sui mercatini o nei siti di vendita di libri usati. Si segnala per correttezza che il libro ha "normalizzato" i contrassegni di quell'anno, inserendoli in un cerchio, per renderli omogenei a quelli adottati in seguito; in realtà però in quell'occasione sulle schede i contrassegni finirono quasi sempre privi di circonferenza (anche perché all'epoca si tendeva a utilizzare un disegno ben identificabile, non a riempire uno spazio con una grafica (peraltro in bianco e nero).
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