Se si voterà il 20 e il 21 settembre per le elezioni amministrative, le suppletive, il referendum costituzionale e (probabilmente) per le regionali, la campagna elettorale ufficialmente inizierà nella seconda metà di agosto. Nessuno, tuttavia, crede davvero che, in questo clima "da differimento" dovuto alla pandemia, quella campagna non sia già iniziata e da tempo: ogni giorno spuntano notizie, indiscrezioni, dichiarazioni in merito a candidature, liste, simboli, per cui la macchina è già ampiamente in moto.
Per seguire tutto ciò con più cognizione di causa torna utile I segreti dell'urna. Storie, strategie e passi falsi delle campagne elettorali, recentissimo libro (pubblicato da Utet) di Giovanni Diamanti, socio co-fondatore e amministratore di Quorum e YouTrend. Il volume, in circa 160 pagine, parla di comunicazione politica e strategia elettorale facendo leva sulle lezioni di esperienze già vissute direttamente, prima e più che sulla teoria (che fa capolino qua e là, ma fin dall'inizio l'autore invita alla lettura dei classici internazionali e italiani in materia).
L'urna di cui si parla nel titolo, in effetti, è solo una metonimia delle campagne elettorali: quando l'urna svela i suoi segreti (cioè quando viene aperta) o anche soltanto quando li riceve (quando la scheda votata viene inserita), infatti, ormai quel che è fatto è fatto. Ciò che conta davvero, naturalmente, si colloca prima del voto ed è su questo che occorre concentrare l'attenzione. Nel farlo, probabilmente il primo segreto (in senso etimologico: qualcosa che è stato messo da parte, quindi occorre impegnarsi per vederlo) da riportare alla luce è anche la chiave di lettura dell'intero volume e si trova all'inizio:
Le origini del pensiero strategico risiedono nei trattati di strategia militare. E quegli stessi princìpi oggi vengono ripresi in ogni ambito della vita, ben oltre la politica: dagli sport all'economia. In più, il confronto tra schieramenti diversi che avviene in campagna elettorale rafforza il paragone, a maggior ragione se, come diceva proprio il generale von Clausewitz, "la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi".
Nulla di nuovo o di sconvolgente, ma se si tiene a mente questo, probabilmente certe dinamiche appaiono più chiare: che le campagne elettorali somiglino molto alle campagne militari (oltre che per le strategie, per il numero di persone coinvolte, la "catena di comando", la tensione senza pause, le sortite a sorpresa e così via) è piuttosto noto, mentre per spiegare il clima da "campagna elettorale permanente" - denunciato da ogni parte, anche da chi lo alimenta di continuo - si deve ricordare che le campagne militari sono azioni politiche con altri mezzi e per qualcuno sono più convenienti o congeniali. Sarà per questo che il comitato elettorale, anche da chi litiga con l'inglese, spesso è chiamato war room, anche se non c'è un modello costante (può essere centrale o periferico, moderno o un po' scalcinato, di certo non mancano i manifesti e gli schermi di computer e smartphone).
Andando alla guerra (pardon: verso le elezioni) è importante anche munirsi di un altro punto fermo: i consulenti politici e di comunicazione - o gli spin doctor, se non ce la fate a parlare italiano - "sono stati importanti, a volte fondamentali, ma nella scheda elettorale, poi, i nomi che votiamo sono quelli di altri". Può sembrare strano che Diamanti metta questo come "primo comandamento", che può indurre a non servirsi di un professionista, ma è così: non c'è automatismo tra la professionalità e l'abilità nella comunicazione e il risultato finale di una campagna elettorale (o referendaria). Nessun consulente "fa vincere" chi si candida: certamente può aiutare a far vincere, ma prima e più di tutto è chiamato ad aiutare a non far perdere (anche perché "si può intraprendere una sfida con la speranza di 'perdere bene', per posizionarsi in vista di sfide future"). Per non perdere o, comunque, per non stare al di sotto delle aspettative - che a volte è bene abbassare, per risultare comunque vincenti - diventa fondamentale evitare ogni errore prevedibile, rimediare nel modo migliore se ne vengono commessi di imprevedibili e, soprattutto, trasformare con intelligenza in opportunità gli errori altrui.
Naturalmente non perdere non basta per vincere, soprattutto in situazioni too close to call (ma a questo punto suona quasi più semplice il latino anceps), in cui chi si contende la vittoria è a un'incollatura e il risultato è incerto perché è instabile. Lì il cardiopalma coinvolge, pur se in modo diverso, chi osserva e chi partecipa come concorrente o come parte della "squadra": se si perde fa male, se si vince in rimonta la soddisfazione è indicibile. La vittoria di Debora Serracchiani alle regionali 2013 in Friuli - Venezia Giulia, che Diamanti ha vissuto direttamente, ne è un esempio: per opporsi a un presidente uscente e ritenuto competente occorre studiare e sfidarlo, creando opportunità di non apparire meno preparati oppure - se questo non accetta la sfida - di essere potenzialmente una minaccia alla vittoria altrui; ai fini del risultato finale, poi, può essere più utile mobilitare il proprio elettorato (e accertarsi del suo sostegno) rispetto a cercare altrove un voto che potrebbe non arrivare. L'esperienza non deve però servire a trarre regole generali per induzione: meglio mettere ciò che si è fatto o si è visto fare da altre persone al servizio della singola candidatura elaborando una strategia "su misura", la migliore possibile in quel contesto.
Alcune costanti, in realtà, si possono individuare: figurare bene nei dibattiti, specie se in tv, conta molto da Kennedy-Nixon in poi (e, in Italia, soprattutto da Berlusconi-Occhetto in poi), ma ancora di più conta la strategia, da concepire dopo aver messo a fuoco il contesto (personale, politico, territoriale, demografico, socio-economico, culturale e mediatico), da definire e mettere per iscritto e poi da applicare (Marco Cacciotto direbbe "capire-decidere-agire"). Fondamentale è riuscire a distinguere il candidato o la candidata per cui si lavora dalle altre persone concorrenti, in modo che riesca a "costruire una propria specificità e conquistare uno spazio", lanciando soprattutto un messaggio semplice, rilevante (coerente innanzitutto con i bisogni e le priorità di chi vota, senza rinunciare ai propri valori che farebbero meno presa ma magari comunicandoli "nel medio termine") e ripetuto.
Altro punto che emerge piuttosto bene dal libro: occuparsi di campagne elettorali è un lavoraccio, nel senso che richiede molti sforzi, anche solo di equilibrio. Si pensi anche solo al rapporto tra creativi e strateghi, coi secondi che devono dare gli elementi più opportuni da comunicare, ma devono anche controllare che gli slogan e la comunicazione visiva elaborati dai creativi siano coerenti con il messaggio e la strategia individuata a monte (e, se non è così, devono richiamarli perché "la creatività deve essere al servizio della strategia"). Anche la scelta e la creazione di un simbolo - per quanto oggi rappresenti una minima parte del lavoro di produzione grafica legato a una campagna elettorale - si colloca di certo in questa dinamica, che conosce un'altra regola fondamentale: alla fine decide il cliente, visto che è lui o lei a metterci la faccia. "È giusto - sottolinea Diamanti - argomentare se non ci convince una sua scelta, siamo pagati per questo, ma non va dimenticato chi è che deve fare la campagna elettorale: il candidato, non il consulente."
Almeno un esempio concreto di come un claim e un'idea grafica possano svilupparsi e lasciare il segno rende più chiaro il meccanismo:
Nel 2018, a Vicenza, abbiamo curato assieme a Matteo Bellomo e all'agenzia Off la campagna di Giacomo Possamai, un mio carissimo amico candidato alle primarie del centrosinistra a soli ventotto anni. A sfidarlo, il vicesindaco Jacopo Bulgarini d'Elci, anche lui grande amico e ottimo assessore, alfiere della continuità in questa contesa (il suo slogan, non per nulla, era "Avanti!"), e Otello Dalla Rosa, candidato "di rottura" con l’amministrazione uscente. Schiacciati tra la continuità e la discontinuità, scegliemmo la linea di messaggio per noi più naturale: quella di sottrarci a questa sfida tutta sul passato, e di giocare la carta del futuro. Su idea di Martina Carone proponemmo infatti il claim "Da adesso in poi", affiancato da un'icona che rappresentava il fast forward, il tasto che significa“avanti veloce”. Giacomo perse per meno di 40 voti, ma quello slogan rimase a tal punto nell'immaginario collettivo che "Da adesso in poi" diventò il nome di una lista civica in continuità con quella campagna, oggi diventata associazione e rappresentata da diversi consiglieri comunali.
Lo slogan è rimasto, l'idea della freccia pure, anche se ha cambiato foggia, ma si dava l'idea di un contributo rigenerativo di cui evidentemente si poteva sentire il bisogno: l'idea iniziale aveva colto nel segno e ha potuto trovare uno sviluppo anche in condizioni diverse rispetto all'obiettivo iniziale. Si crea ora, come del resto si creava nella Prima Repubblica (fa piacere trovare citati nel volume i nomi di Bruno Magno e Filippo Panseca, creatori di alcuni tra i simboli più ricordati degli ultimi anni di quella fase storico-politica e che hanno donato ai lettori di questo sito le loro esperienze). Certo oggi con i social network molte cose sono cambiate ed è cambiato il modo di lavorare: è più facile lanciare e veicolare messaggi e creare potenziali "fatti politici", ma in un ambiente ultrasaturo è molto più difficile emergere. E anche i social e tutti i nuovi mezzi tecnologici restano uno strumento, non un fine: senza messaggi validi ed efficaci da comunicare, o se la comunicazione non è coerente con la persona cui si riferisce, l'obiettivo è a rischio.
Certamente ora, più che propagandare un'idea (o un bagaglio di idee), si è chiamati a comunicare una persona, il suo rapporto con l'obiettivo da raggiungere. Ma sulla lista delle cose da fare l'elenco è corposo: "È importante - elenca Diamanti - investire nella ricerca: quantitativa e qualitativa, per arrivare a ottenere le informazioni di cui necessitiamo sullo scenario, sulle priorità e sul clima d’opinione prevalente nell'elettorato. È utile testare il messaggio, e divulgarlo a un livello più ampio e generale, attraverso i media mainstream, per poi diffonderlo in modo più capillare a segmenti specifici attraverso le nuove tecniche e le nuove tecnologie. Serve costruire una campagna crossmediale, dove la tv si intrecci con i media digitali e dove non si trascurino forme più antiche di mobilitazione". E, ovviamente, occorre conoscere a fondo forze e debolezze del proprio cliente e degli avversari (prevedendone le mosse e preparando gli attacchi, pure a sorpresa).
Anche chi si candida, peraltro, è bene che impari qualcosa, ad esempio a non chiedere a uno strumento ciò che non può dare: i sondaggi, per esempio, servono a scattare fotografie o a far emergere tendenze, non certo a predire l'esito di una competizione. Allo stesso modo, copiare un modello vincente, di cui magari ci si è innamorati, non paga: "Nel 2008, dopo il trionfo di Obama alle primarie democratiche al grido di Yes we can! l’allora leader e candidato premier del Partito democratico Walter Veltroni scelse di riprenderne il messaggio, improvvisando un meno incisivo 'Si può fare' come slogan, e copiandone in parte la retorica. Il risultato fu ben diverso da quello obamiano: il Pd rappresentava la continuità con un governo non apprezzato, non poteva rappresentare le aspirazioni e i sogni di un paese ormai disilluso con la stessa forza del leader afroamericano". Allo stesso modo, aveva funzionato molto bene la campagna "rottamatoria" di Matteo Renzi alle primarie del 2012 per la guida della coalizione (con lo slogan "Adesso!"), vero inizio dell'ascesa dell'allora sindaco di Firenze (dopo un anno sarebbe arrivata la segreteria Pd, poi il governo); quando però alle primarie per i parlamentari vari candidati renziani ripresero colori e claim, "era piuttosto ironico vedere abbinati i volti di alcuni politici di lungo corso allo slogan 'Adesso!' e ai messaggi sulla rottamazione. Non escludo che costoro avessero studiato attentamente lo scenario e i profili degli avversari, ma si erano concentrati poco sul proprio profilo e sulla coerenza di valori espressa dai materiali di comunicazione". Cambiando area, funzionò bene per Matteo Salvini aver messo in alto l'asticella alle europee del 2019 (con il 30% abbondantemente superato), sostanzialmente chiamando un "referendum sulla Lega", ma quando la stessa strategia è stata usata in Emilia-Romagna, il risultato più alto del centrodestra in quella regione è apparso ai più come una sconfitta dolorosa (come capita a tutti i vincitori annunciati o autoproclamati in anticipo).
Quello di Giovanni Diamanti non è un manuale di comunicazione politica o di consulenza elettorale, né aspira a esserlo. Si presenta però come una raccolta di esperienze o di "precedenti" noti (soprattutto agli addetti ai lavori e ai #drogatidipolitica) che permettono a chi si accosta con curiosità a questo punto di osservazione della politica di avere alcune coordinate minime che sanno di vita vissuta e studiata. I titoli scelti per i capitoli (Conosci te stesso, il tuo avversario e il contesto / Abbassa le aspettative per sorprendere / Vinci senza combattere / Scegli tu il campo di battaglia / Valorizza i tuoi punti di forza, e fallo presto / Non trascurare i punti di debolezza, sorprendi l’avversario! / Si può perdere una battaglia per vincere la guerra / Ordine e disciplina! / Non sottovalutare mai l’avversario", abbinati quasi sempre a massime di Sun Tzu, ma spuntano anche il Che e l'autore dei 36 stratagemmi) rappresentano una sorta di breviario in punti da risgranare di frequente, ma anche un piccolo schedario per le proprie esperienze personali o le proprie impressioni, magari da confrontare con ciò che è già accaduto e le lezioni che se ne possono trarre.
Senza volersi sostituire all'autore, sembra che una delle maggiori fonti di esperienza per Diamanti sia stata la campagna elettorale delle amministrative a Milano nel 2016, complessivamente intesa. Alle primarie del centrosinistra, infatti, Quorum/YouTrend aveva seguito la campagna dell'assessore Pierfrancesco Majorino, arrivato terzo su tre concorrenti ma sfiorando a sorpresa il 25%; per le "secondarie", fu il vincitore delle primarie, Giuseppe Sala, a contattare Diamanti e il suo staff. Quella vicenda ha anche un piccolo risvolto simbolico e merita di essere riportata:
Si tratta in pratica dell'ammissione che il momento più democratico che si possa immaginare in condizioni normali, vale a dire le elezioni, richiede il minimo di democrazia se lo si guarda dal lato dell'elettorato passivo, cioè di chi si candida. Ma in fondo non c'è da sorprendersi: elettori ed elettrici non vanno alla guerra (al massimo si fanno reclutare), le squadre di chi si candida invece combattono di continuo e per ben più di un mese. A pensarci bene, chi partecipa attivamente almeno una volta a una campagna elettorale nella propria vita può trovarsi a vivere un'esperienza simile al servizio militare ora non più obbligatorio. Ciò ha indubbi vantaggi: si tratta di un periodo più breve, più stimolante e probabilmente si impara qualcosa di più utile: "i segreti dell'urna", in fondo, riguardano tutti.
Certamente ora, più che propagandare un'idea (o un bagaglio di idee), si è chiamati a comunicare una persona, il suo rapporto con l'obiettivo da raggiungere. Ma sulla lista delle cose da fare l'elenco è corposo: "È importante - elenca Diamanti - investire nella ricerca: quantitativa e qualitativa, per arrivare a ottenere le informazioni di cui necessitiamo sullo scenario, sulle priorità e sul clima d’opinione prevalente nell'elettorato. È utile testare il messaggio, e divulgarlo a un livello più ampio e generale, attraverso i media mainstream, per poi diffonderlo in modo più capillare a segmenti specifici attraverso le nuove tecniche e le nuove tecnologie. Serve costruire una campagna crossmediale, dove la tv si intrecci con i media digitali e dove non si trascurino forme più antiche di mobilitazione". E, ovviamente, occorre conoscere a fondo forze e debolezze del proprio cliente e degli avversari (prevedendone le mosse e preparando gli attacchi, pure a sorpresa).
Anche chi si candida, peraltro, è bene che impari qualcosa, ad esempio a non chiedere a uno strumento ciò che non può dare: i sondaggi, per esempio, servono a scattare fotografie o a far emergere tendenze, non certo a predire l'esito di una competizione. Allo stesso modo, copiare un modello vincente, di cui magari ci si è innamorati, non paga: "Nel 2008, dopo il trionfo di Obama alle primarie democratiche al grido di Yes we can! l’allora leader e candidato premier del Partito democratico Walter Veltroni scelse di riprenderne il messaggio, improvvisando un meno incisivo 'Si può fare' come slogan, e copiandone in parte la retorica. Il risultato fu ben diverso da quello obamiano: il Pd rappresentava la continuità con un governo non apprezzato, non poteva rappresentare le aspirazioni e i sogni di un paese ormai disilluso con la stessa forza del leader afroamericano". Allo stesso modo, aveva funzionato molto bene la campagna "rottamatoria" di Matteo Renzi alle primarie del 2012 per la guida della coalizione (con lo slogan "Adesso!"), vero inizio dell'ascesa dell'allora sindaco di Firenze (dopo un anno sarebbe arrivata la segreteria Pd, poi il governo); quando però alle primarie per i parlamentari vari candidati renziani ripresero colori e claim, "era piuttosto ironico vedere abbinati i volti di alcuni politici di lungo corso allo slogan 'Adesso!' e ai messaggi sulla rottamazione. Non escludo che costoro avessero studiato attentamente lo scenario e i profili degli avversari, ma si erano concentrati poco sul proprio profilo e sulla coerenza di valori espressa dai materiali di comunicazione". Cambiando area, funzionò bene per Matteo Salvini aver messo in alto l'asticella alle europee del 2019 (con il 30% abbondantemente superato), sostanzialmente chiamando un "referendum sulla Lega", ma quando la stessa strategia è stata usata in Emilia-Romagna, il risultato più alto del centrodestra in quella regione è apparso ai più come una sconfitta dolorosa (come capita a tutti i vincitori annunciati o autoproclamati in anticipo).
Quello di Giovanni Diamanti non è un manuale di comunicazione politica o di consulenza elettorale, né aspira a esserlo. Si presenta però come una raccolta di esperienze o di "precedenti" noti (soprattutto agli addetti ai lavori e ai #drogatidipolitica) che permettono a chi si accosta con curiosità a questo punto di osservazione della politica di avere alcune coordinate minime che sanno di vita vissuta e studiata. I titoli scelti per i capitoli (Conosci te stesso, il tuo avversario e il contesto / Abbassa le aspettative per sorprendere / Vinci senza combattere / Scegli tu il campo di battaglia / Valorizza i tuoi punti di forza, e fallo presto / Non trascurare i punti di debolezza, sorprendi l’avversario! / Si può perdere una battaglia per vincere la guerra / Ordine e disciplina! / Non sottovalutare mai l’avversario", abbinati quasi sempre a massime di Sun Tzu, ma spuntano anche il Che e l'autore dei 36 stratagemmi) rappresentano una sorta di breviario in punti da risgranare di frequente, ma anche un piccolo schedario per le proprie esperienze personali o le proprie impressioni, magari da confrontare con ciò che è già accaduto e le lezioni che se ne possono trarre.
Senza volersi sostituire all'autore, sembra che una delle maggiori fonti di esperienza per Diamanti sia stata la campagna elettorale delle amministrative a Milano nel 2016, complessivamente intesa. Alle primarie del centrosinistra, infatti, Quorum/YouTrend aveva seguito la campagna dell'assessore Pierfrancesco Majorino, arrivato terzo su tre concorrenti ma sfiorando a sorpresa il 25%; per le "secondarie", fu il vincitore delle primarie, Giuseppe Sala, a contattare Diamanti e il suo staff. Quella vicenda ha anche un piccolo risvolto simbolico e merita di essere riportata:
La campagna elettorale milanese fu molto seguita dai media nazionali, che erano attratti in particolar modo dalla 'sfida dei tre manager'. Beppe Sala, infatti, era il famoso amministratore delegato che aveva salvato l’Expo milanese dal fallimento, trasformandola in successo totale. Un grande manager, su cui pochi avevano da ridire. I suoi sfidanti erano altri due manager di fama nazionale: l’ex ministro e ceo di Intesa San Paolo Corrado Passera, candidato con una propria lista civica di centro, e Stefano Parisi, già direttore generale di Confindustria e amministratore delegato di Fastweb, scelto a sorpresa dal centrodestra.
Furono proprio i due sfidanti a scegliere di inseguire Sala sul terreno delle capacità manageriali, e con tutto lo staff decidemmo di non tirarci indietro. La nostra scommessa era semplice: eravamo convinti che in quel momento storico Beppe fosse più forte e credibile dei suoi sfidanti su quel fronte. Per questo, senza legare in modo esplicito i suoi messaggi a Expo per non attirare sul candidato ulteriori polemiche, riprendemmo i colori di quell’evento nel logo di campagna (creato dal nostro art director dell'epoca, Lorenzo Ravazzini), e ideammo un claim con un chiaro riferimento all'approccio manageriale: “Milano. Ogni giorno, ogni ora”. La campagna di Passera finì dopo poche settimane e dopo aver cercato invano posizionamenti diversi e poco credibili, mentre Parisi dimostrò di avere un grande talento politico, conducendo una campagna elettorale vivace e capillare, che tuttavia non bastò a vincere. Sala vinse le elezioni al ballottaggio con 17000 voti di margine, più di tre punti percentuali.
Quell'anno, il centrosinistra perse quasi ovunque nella tornata amministrativa, da Torino a Roma: la vittoria di Milano arrivò soprattutto per la credibilità del candidato e della squadra che lo sosteneva. Sicuramente, l’aver potuto giocare su un terreno che ben conosceva fu fondamentale per l’attuale sindaco, che in quei mesi acquisì sempre maggior sicurezza e serenità, due elementi fondamentali per un candidato alla prima esperienza di campagna elettorale.Da ultimo, chi non ha mai vissuto a qualunque livello (anche da semplice volontario o "galoppino") una campagna elettorale, non può prescindere dal capitolo Ordine e disciplina!: la lettura è un ottimo modo per spazzare via in un battibaleno ogni immagine poetica e sognante di gruppi politici e liste che decidono tutto insieme e in cui tutti possono dire la loro, venendo sempre ascoltati e senza che nessuno mai si sogni di dire "stai al tuo posto!". In un contesto in cui anche in Italia "ormai in una campagna media si trovano fianco a fianco un campaign manager, uno stratega, agenzie creative e demoscopiche, oltre a professionisti che si occupano dei media digitali, di multimedia, di ufficio stampa", non si può immaginare che ci sia "una struttura orizzontale, senza vertici né decisori. È normale che dei professionisti abbiano idee diverse, ed è anche positivo. Ma serve una catena di comando, una scala gerarchica che stabilisca a priori chi prende le decisioni, e in quale ordine. È preferibile che ad avere l’ultima parola sia sempre una figura di fiducia del candidato, e che possa unire a questo ruolo decisionale anche le responsabilità organizzative della campagna: un manager, appunto".
Si tratta in pratica dell'ammissione che il momento più democratico che si possa immaginare in condizioni normali, vale a dire le elezioni, richiede il minimo di democrazia se lo si guarda dal lato dell'elettorato passivo, cioè di chi si candida. Ma in fondo non c'è da sorprendersi: elettori ed elettrici non vanno alla guerra (al massimo si fanno reclutare), le squadre di chi si candida invece combattono di continuo e per ben più di un mese. A pensarci bene, chi partecipa attivamente almeno una volta a una campagna elettorale nella propria vita può trovarsi a vivere un'esperienza simile al servizio militare ora non più obbligatorio. Ciò ha indubbi vantaggi: si tratta di un periodo più breve, più stimolante e probabilmente si impara qualcosa di più utile: "i segreti dell'urna", in fondo, riguardano tutti.
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