Ma, in fondo, cosa sarebbero i #drogatidipolitica senza il Parlamento, anzi, senza l'assemblea? Privi del luogo (fisico, ideale e immateriale) più legato alle elezioni, alle loro regole e ai soggetti che le animano, perderebbero il maggior motivo di interesse per la politica: la rappresentazione della complessità, a volte chiamata "articolazione" o in altri modi che comunichino l'idea di un mondo composito (e non difficile, per loro non lo è). Chi appartiene al girone dei #drogatidipolitica ama dunque realmente l'assemblea: sa che un'aula parlamentare - o di ogni altro organo assembleare elettivo - permette di dare conto in modo più o meno fedele della varietà di posizioni tra coloro che votano, dei mutamenti nella società che si trasmettono in un emiciclo e perfino della vita (e della scomparsa) di soggetti politici che, nati in quelle aule, sperano di trovare seguito anche tra chi dovrebbe votarli o iscriversi.
Chi segue questo sito apprezzerà allora un recentissimo volume piccolo ma prezioso, che raccoglie sguardi attenti al passato e sfide realistiche per il futuro (assai vicino, specie dopo il taglio dei parlamentari). L'autore di Elogio dell'assemblea, tuttavia (pubblicato dall'editore modenese Mucchi, 77 pagine, 8 euro) è Andrea Manzella, una delle figure che senza dubbi conoscono meglio l'istituzione parlamentare, nei suoi numerosi pregi e difetti. Consigliere parlamentare della Camera dal 1961 al 1980, ha seguito decisamente da vicino la genesi del regolamento del 1971 (quello tuttora vigente, pur modificato nel corso del tempo); in seguito è stato a lungo impegnato come consigliere giuridico, segretario generale della Presidenza del Consiglio, parlamentare europeo (1994-1999) e senatore (1999-2008). Dall'inizio degli anni '70 ha insegnato in vari atenei diritto costituzionale e parlamentare, disciplina per la quale ha scritto un apprezzato manuale (edito da Laterza e pubblicato in tre edizioni, l'ultima nel 2003); dal 1995, infine, è alla guida del Centro di studi sul Parlamento dell’Università Luiss di Roma.
Nella sua "piccola conferenza", Manzella mette in luce il valore che l'istituto assembleare ha nella storia dell'intera umanità e non solo delle istituzioni: per lo studioso l'assemblea è "la 'forma' scelta dai più diversi insiemi sociali nel pianeta per la tutela collettiva della loro stessa sopravvivenza individuale e per il modo di decidere più giusto ed efficace". Non paia esagerata quest'affermazione: sono molte le testimonianze storiche di società più o meno ampie che hanno scelto di organizzarsi dandosi una qualche forma di assemblea per darsi regole vincolanti per tutti e ciò non può apparire come frutto del caso.
Un'esigenza unitaria e identitaria
Per Manzella è risultato chiaro, nel corso dei secoli, che "solo l'assemblea comune consente di salvaguardare in maniera eguale la primordiale sfera di autonomia individuale dalle paure più incombenti". Paure, insicurezze, bisogni e preoccupazioni delle singole persone, che diventano di tutti (o per lo meno di molti), per cui diventa importante affrontarle insieme. In assemblea, dunque, ci si ritrova per "conseguire e mantenere l'unità della società di base": una declinazione della massima e pluribus unum, che in seguito avrebbe caratterizzato anche la nascita e lo sviluppo delle assemblee parlamentari.
Questa logica, dunque, valeva anche quando non c'erano i parlamenti (con relativi regolamenti), né esistevano partiti, statuti, simboli, liste e gruppi; eppure tutto ciò sembra essere la logica conseguenza delle dinamiche che caratterizzano di norma le società. Se infatti ognuna di queste è un "organismo composto di autonomie soggettive, ciascuna delle quali ha una sua sfera indefinita di espansione e di violenza", nota Manzella che "solo nell'assemblea si è identificato l'antidoto per disinnescare la violenza e bilanciare le rispettive tendenze a espandersi", cercando dunque un modo per un'azione comune, concertata. Quella decisione avviene secondo regole che la stessa assemblea si dà, per disinnescare i conflitti e bilanciare le varie istanze, ma quelle regole riescono a fare di più: rendendo più omogenei i soggetti che compongono l'assemblea, di fatto creano un'identità e lo fanno senza sosta (anche se occorre la "collaborazione" dei componenti stessi dell'assemblea). Non a caso l'autore parla di "un continuo processo di integrazione", che si coniuga agli sforzi volti a tutelare i diritti dei singoli e perseguire gli obiettivi comuni: secondo la sua lucida ricostruzione, solo l'assemblea - qualunque nome abbia avuto - è stata ed è capace di trasformare una "mera aggregazione di gruppo" in "un soggetto collettivo che agisce unitariamente per finalità comuni" (o almeno dovrebbe), divenendo così contemporaneamente "popolo" (come insieme di soggetti e istanze) e "comunità" (con obiettivi condivisi).
Rappresentatività e rappresentanza: partiti, gruppi, vincoli (e simboli)
In questo contesto diventa fondamentale il rapporto esistente tra la rappresentatività di un'assemblea (cioè la capacità di rispecchiare, al suo interno, il pluralismo del gruppo che l'ha fatta nascere) e la rappresentanza (vale a dire la capacità di quell'organo di agire come "interprete della volontà del gruppo sociale di riferimento"). Un'assemblea, anche non parlamentare, non può riuscire davvero a interpretare la volontà di un gruppo (e ad agire di conseguenza) se non "somiglia" a quest'ultimo nella composizione; d'altra parte, la semplice "somiglianza" senza il momento successivo - dunque la lettura della volontà collettiva e la sua traduzione in azioni - sarebbe per Manzella "narcisismo sociale senza scopo".
Se si considera questo rapporto reciproco, si può concordare in pieno con l'autore quando scrive che "la rappresentatività è un valore attivo che 'convalida' la rappresentanza, attraverso un confronto continuo con l'inorganica ma ben influente opinione pubblica". Per questo, la rappresentatività non può riguardare solo il momento in cui l'organo nasce, quando se ne determinano i componenti in base alle norme elettorali: l'assemblea deve essere sempre rappresentativa, perché il rapporto rappresentatività-rappresentanza continui a essere alimentato e dia frutti. Da questa considerazione si potrebbero trarre conclusioni diverse, fino a pensare che la composizione dell'aula deve per forza rispecchiare in tutto le proporzioni delle forze politiche all'atto delle elezioni o che, peggio, debba sempre essere immagine dell'assetto politico della società, mutando al variare di questo. Manzella sente di dover smentire subito che per avere un'assemblea rappresentativa questa debba sempre consistere in una "mera riproduzione su minore scala del materiale sociale sottostante": alcuni aggiustamenti sono inevitabili (come gli arrotondamenti dei seggi spettanti alle liste), altri sono frutto di una scelta, ma sono comunque accettabili se sono volti a perseguire "la stessa efficienza dello strumento assembleare". Ha chiarito questo la Corte costituzionale, nella sentenza n. 239/2018 (con cui non ha ritenuto incostituzionale la soglia del 4% per le elezioni europee), sebbene in passato - in particolare a partire dalla sentenza n. 1/2014 sulla "legge Calderoli" - avesse già richiamato il principio di uguaglianza del voto e la necessità di non distanziare troppo la composizione delle Camere dalla volontà espressa dal corpo elettorale.
L'autore nota però che, se l'assemblea diventa di tutti ("proprio perché è qualcosa di separato dalla volontà di ognuno"), il distacco dai particolarismi che l'hanno prodotta ha come effetto la libertà dell'assemblea stessa, sotto vari profili: in particolare, ciascuna persona eletta è libera, ma questa libertà non va (tanto) a suo vantaggio, perché serve a tutelare proprio la libertà dell'organo, concorre dunque a un fine più grande. Alla luce del medesimo fine, tra l'altro, si può leggere il divieto di mandato imperativo (previsto, per il Parlamento italiano, dall'art. 67 Cost.): ciascun membro dell'assemblea viene sciolto da "obblighi elettorali", in compenso è vincolato a "una rappresentanza unitaria dell'intera comunità", fatta non solo di presente, ma anche di storia e di "attese di futuro".
Quel vincolo in effetti è più impegnativo di quello nascente dalle elezioni o dall'appartenenza a un partito, ma è probabile che gli occhi della maggior parte delle persone - e degli stessi #drogatidipolitica - si concentrino sui gruppi parlamentari e consiliari, nonché sulla loro evoluzione. Manzella nota che l'organizzazione in gruppi di un'assemblea, a partire da quella parlamentare, "risponde, ancor prima che ad esigenze di funzionalità, a questa necessità di 'verità' della rappresentazione": non c'è automatismo nella nascita dei gruppi o nell'adesione a questi (in nome della libertà dell'assemblea e dei suoi stessi componenti), ma i gruppi sono necessari, perché "la società non è piatta" e non può esserlo l'assemblea che vorrebbe rappresentarla. Alla base dell'articolazione dell'assemblea, dunque, si individuano altre "esigenze di efficacia dei meccanismi decisionali" dell'organo: ci si raccoglie in gruppi per riconoscersi e distinguersi, per darsi dei tempi, perché le cariche non finiscano tutte dalla stessa parte e così via. Di certo oggi, più che all'esistenza dei gruppi, si guarda - spesso non con occhio benevolo - ai "movimenti" di persone tra essi, con il noto fenomeno dei "cambi di casacca" (o, in linguaggio tecnico, del "transfughismo"). Manzella precisa che gli strumenti per tentare di limitarlo paiono inconciliabili "con la natura stessa dell'assemblea e del libero mandato dei suoi componenti", pur ammettendo che ciò può lasciare spazio tanto a "opportunismi individuali" quanto a dissidi politici, alla base di secessioni e scissioni.
L'autore non può certo evitare, a questo punto, un riferimento a due fenomeni ben noti in Italia - e monitorati con costanza dai veri #drogatidipolitica - specie dalla XII legislatura e ancor più dalla successiva: la lievitazione del "gruppo misto", per l'adesione di eletti appartenenti a partiti che non potevano costituire o di transfughi bisognosi di una "decantazione" prima di approdare in altri gruppi, e il sorgere di nuovi partiti "che nascono per scissioni di gruppi in parlamento in vista di un incerto trapianto nella società elettorale" (un fenomeno che "sembrava relegato alle vicende parlamentari inglesi dell'800"). Se tutto ciò porta i segni della patologia (che peraltro attraggono terribilmente chi studia la materia), è anche vero che il rapporto reciproco e vivificante tra rappresentazione e rappresentanza dovrebbe portare a non stigmatizzare la nascita di gruppi parlamentari (e persino di componenti del gruppo misto alla Camera), ove corrispondano davvero a soggetti politici esistenti nella società, magari nati in corso di legislatura ma con un certo numero di iscritti. A tal proposito, sembra essenziale che non vi siano soltanto un atto costitutivo dell'associazione/partito, uno statuto, un simbolo e un gruppo di aderenti-fondatori (che non di rado sono pure dirigenti del soggetto politico), ma che il partito "esista in concreto" e possa dimostrarlo: in questo modo, forse, cesserebbe la tentazione di vedere il partito come strumento "tecnico" per ottenere un risultato atteso ed esso ritornerebbe a essere un'articolazione della società che merita - ove dimostri di avere un certo consenso - di essere rappresentato nell'assemblea.
Assicurare la rappresentanza è qualcosa di più complesso, oltre che di logicamente "successivo" rispetto alla rappresentazione: ricorda Manzella che la rappresentanza si traduce "nella espressione di sintesi delle differenze sociali, nella de-cifratura delle divergenti opinioni, nella loro finale con-fusione per una decisione unitaria". Una decisione che prende le mosse ovviamente dal risultato elettorale, ma è alimentata anche dalla "permanente pressione sull’assemblea di comunità animate dalla spinta progressiva ad acquisizioni di eguaglianza". Naturalmente nella "decisione unitaria" rientra anche quella sulla fiducia da concedere al governo, ma deve trattarsi pur sempre di una scelta dell'assemblea: come la Corte costituzionale ha ricordato (soprattutto nelle sentenze del 2014 e del 2017 sulla legge elettorale politica), il sistema elettorale deve badare innanzitutto ad assicurare la rappresentatività dell'assemblea parlamentare che forma, non la governabilità (e non può essere il sistema elettorale a predeterminare una maggioranza di governo in una forma di governo parlamentare). Naturalmente l'autore riconosce che proprio nell'assemblea hanno piena cittadinanza le aspettative del "governo in parlamento" (e, dunque, della sua maggioranza), circa l'attuazione del proprio programma; si tratta però di assicurare un delicato equilibrio delicato tra queste e le aspettative dell'opposizione, perché essa "possa esprimersi in parlamento come vera forza di governo alternativo e non costretta al ruolo di ostruzione o di 'imprecazione', ridotta al c.d. diritto di tribuna".
Due Camere, un'Assemblea (non sovrana)
Un'altra sezione della "piccola conferenza" riguarda il bicameralismo e la sua compatibilità con il fine unitario e di "sintesi" dell'assemblea di cui si è detto fin qui. Per Manzella la "spinta all'uguaglianza" e all'integrazione che caratterizza l'assemblea potrebbe essere compromessa dalla moltiplicazione (o anche solo dal raddoppio) di quelle sedi: ciò non dovrebbe riguardare però l'Italia, formalmente bicamerale ma caratterizzata da quello che l'autore chiama "monocameralismo 'non detto'", con l'assetto di "Due Camere, un Parlamento" (per riprendere il titolo di un volume curato dallo stesso Manzella con Franco Bassanini nel 2017). Ciò emergerebbe già dalla scelta, fatta da un'altra Assemblea (la Costituente), di impiegare nella Carta il termine "Parlamento" per indicare le due Camere: allora non si spiegarono le ragioni dell'uso di una parola assente nello Statuto albertino, ma l'uso fattone nel testo costituzionale ha attribuito a quel Parlamento un ruolo chiave, come espressione di "un'unità funzionale" e "complessa", ben di più della semplice somma di "due entità distinte".
Il Parlamento appare davvero un soggetto unitario quando si riunisce in seduta comune (per eleggere, sentire giurare o mettere in stato di accusa il Presidente della Repubblica, nonché per eleggere i giudici costituzionali e i componenti "laici" del Csm di propria spettanza), come "garante delle funzioni di unità nazionale degli altri organi costituzionali". Anche in sede legislativa, però, la Costituzione delinea un processo altrettanto unitario (con la funzione legislativa che dev'essere esercitata "collettivamente dalle due Camere": art. 70 Cost.): lo dimostrerebbero anche le "fasi procedurali intercamerali" che caratterizzando le delicate decisioni in materia di bilancio. Proprio queste, negli ultimi tre anni, hanno subito pesanti stress e forzature (con uno dei due rami del Parlamento che di fatto "non tocca palla", finendo per creare una situazione non troppo distante dal "monocameralismo temperato", almeno in quest'ambito); è altrettanto noto però che la Corte costituzionale, nel 2019 come nel 2020, pur avendo riconosciuto l'esistenza di deformazioni e dilatazioni nel concreto percorso parlamentare, non ha ravvisato "un irragionevole squilibrio fra le esigenze in gioco nelle procedure parlamentari e, quindi, un vulnus delle attribuzioni dei parlamentari grave e manifesto". Il Parlamento, dunque, risulta "parte indispensabile dei procedimenti che garantiscono il sistema nella sua integrità": a questi partecipa ciascun membro delle Camere, quale rappresentante della Nazione ex art. 67 Cost.
Non va dimenticato che chi scrisse la Carta volle approntare una "garanzia contro il pericolo dell''assolutismo' parlamentare", immaginando reciproci contropoteri delle due Camere nutriti dalle differenze tra esse previste in Costituzione: queste però sono state in parte cancellate (la diversa durata delle due Camere) o rese irrilevanti grazie ad altre norme (è il caso dell'elezione a base regionale del Senato, che le leggi elettorali non hanno valorizzato o, come quella del 2005, l'hanno fatto in un modo sbagliato). In realtà, secondo Manzella, le preoccupazioni di madri e padri costituenti miravano essenzialmente a garantire un "giusto procedimento" dell'istituzione parlamentare: le attribuzioni di ciascuna Camera devono dunque considerarsi fasi interne di un unico procedimento.
La delicata funzione di equilibrio che quest'Assemblea riveste, peraltro, non deve far cadere nella tentazione di affermare, come pure spesso si legge e si sente, che "il Parlamento è sovrano", nel senso di sovraordinato in una scala gerarchica. "Sovrano - nota Manzella - è l'ordine complessivo che il popolo attraverso la decisione costituente si è dato": certamente in quell'ordine l'assemblea rappresenta "l'indispensabile strumento di avvio e di mantenimento". Un mantenimento che il Parlamento deve preoccuparsi di esercitare, mantenendo l'indirizzo politico di sistema (vale a dire "la strategia sociale e geopolitica" del paese) all'interno del "triangolo normativo" delimitato dalla forma repubblicana (non revisionabile, ex art. 139 Cost.), dall'apertura alla società internazionale (art. 11 Cost.) e dalla tensione all'uguaglianza sostanziale dei cittadini (art. 3, comma 2 Cost.): compito dell'assemblea è assicurare il più possibile un equilibrio dinamico, componendo le varie spinte provenienti dal corpo sociale.
L'Assemblea e le sue regole
In ciò che si è visto finora, un ruolo delicatissimo e irrinunciabile spetta alle "regole delI'Assemblea", cioè ai regolamenti delle Camere: tocca anche a questi garantire un equilibrio "nella vita dell'assemblea tra le ragioni dei 'più' e quelle dei 'meno'", oltre che "tra le regole che tutelano la sfera individuale di ciascun membro e quelle che salvaguardano la complessiva efficienza assembleare ad adottare decisioni efficaci" (va letto anche così il monito della Consulta - nell'ordinanza n. 60/2020 - a non creare, anche attraverso norme regolamentari e prassi, "un irragionevole squilibrio fra le esigenze in gioco nelle procedure parlamentari"). Può dirsi che il dialogo e il confronto in condizioni di ragionevole parità sono elementi costitutivi e necessari dell'assemblea (addirittura prima della sua costituzione: Manzella inquadra così la campagna elettorale in vista della formazione dell'organo). Non c'è dunque decisione assembleare senza deliberazione (e discussione), come senza le "regole dell'Assemblea" - ora scritte, ora praticate e consolidate - non può esservi assemblea.
Il ruolo così delicato di quelle regole spiega anche perché i giudici possano solo prendere atto dell'esistenza delle norme del diritto parlamentare, senza poterle giudicare o ritenere "ingiuste". Se però la situazione dovesse davvero degenerare in una condizione in cui "i 'più', rompendo la parità nel dialogo, privano i 'meno' dei diritti loro spettanti in virtù dell'intarsio tra norme della costituzione e norme regolamentari", i giudici potrebbero intervenire, perché sarebbe prevalente l'interesse sociale a riportare "nella norma" il dialogo e il procedimento assembleare siano "rinormalizzati". La funzione unificante dell'assemblea, infatti, non annulla la natura dialettica del suo potere, frutto di un continuo confronto interno: se una parte di quel confronto ritiene che le regole del contraddittorio siano state alterate dalla maggioranza, ha titolo per agire a tutela di propri diritti, ma sempre e comunque nell'assemblea e avendo come fine mediato il buon funzionamento dell'assemblea stessa (l'autore nota incidentalmente che in Italia, a differenza di vari ordinamenti democratici, non è prevista alcuna legittimazione formale di una parte dell'assemblea - opposizione, gruppo, frazione dell'assemblea - ad agire contro lamentate lesioni dei propri diritti, ma la Corte costituzionale ha ritenuto di poter riconoscere detta legittimazione ai singoli parlamentari).
Le sfide della partecipazione e della contemporaneità
Certo è che, perché la funzione unificante sia completa, occorrerebbe un contatto reale del Parlamento - e, in generale, dell'assemblea - con "il mondo intorno", ciò che Manzella chiama agorà. Non è solo una questione, pur essenziale, di conoscibilità degli atti e degli stessi contenuti delle sedute (per cui, per fortuna, si è passati dalla pubblicità garantita essenzialmente dalla pubblicazione degli atti parlamentari e dalle trasmissioni - a lungo "non ufficiali", ma fondamentali - di Radio Radicale alla diffusione, da parte delle stesse Camere attraverso siti e account ufficiali, di gran parte dei documenti rilevanti e delle stesse immagini di seduta): occorrerebbe che il Parlamento si mettesse nelle condizioni di ascoltare la società, conoscerne le frammentazioni e adoperarsi per ridurle, riportando "dentro l'ordinamento democratico flussi, funzioni, conflitti, capitali sociali che stentano ad entrare dentro la logica rappresentativa, territori della vita quotidiana ignoti alla mediazione politica". Solo così, probabilmente, l'assemblea - e in particolare il Parlamento - potrebbe essere in grado di esercitare la teaching function teorizzata da Walter Bagehot (e invocata da Manzella), volta a "modificare in meglio" la società al centro della quale è stata posta, insegnando all'unico corpo elettorale che l'ha eletta "ciò che non sa": ciò a partire dalla "moralità del discorso a più voci e delle decisioni legittimate: dalla partecipazione attiva delle minoranze prima ancora che dal consenso ragionato di una maggioranza".
In questo contesto, l'Assemblea avrà sempre di più il compito e la necessità di "intercettare i processi politici in atto e di comporli in 'unità costituzionale'": è chiamata a soddisfare la "necessità democratica di arricchire, con la partecipazione delle comunità politiche minori, la rappresentatività 'nazionale' del processo di decisione parlamentare" (non mediando tra gli interessi territoriali divergenti, ma trasformandoli in interessi nazionali), senza trascurare le istanze dei soggetti collettivi portatori di interessi (soprattutto grazie all'impegno delle singole persone elette). Allo stesso tempo, Manzella nota che l'Assemblea - in quanto "emanazione diretta del potere popolare e, insieme, potere pubblico costituito" - ha pure il compito di garantire "la stabilità dei confini dei plurimi poteri dell’ordinamento", poteri che non devono sfuggire al controllo popolare (poiché "la sovranità appartiene al popolo").
Il Parlamento è anche chiamato a controllare le istituzioni di governo, ora soprattutto nelle forme "di controllo-indirizzo e controllo-influenza sempre più condizionate nei tempi e nell'intensità dal peso dell'opinione pubblica". L'assemblea si trova innanzitutto a dover controllare, soprattutto con emendamenti e "pareri normativi" le varie iniziative normative dell'esecutivo: questo non di rado cerca di aggirare il controllo con i maxi-emendamenti assistiti dalla questione di fiducia, ma in una situazione di emergenza come l'attuale - con l'accumulo di vari atti normativi del governo a limitazione delle libertà - sembra assai diffuso tra gli ordinamenti "un rilevante problema di qualità democratica" (e secondo Manzella le corti costituzionali farebbero bene a chiarire che "quell'ingombrante precedente di massa 'non fa precedente' nel normale ordine costituzionale); non va poi sottovalutato il ruolo di garanzia di alcune articolazioni parlamentari (come il Comitato per la legislazione o le commissioni competenti) quando cercano di intervenire a favore della "leggibilità del diritto" o della sostenibilità della finanza pubblica (impiegando rapporti di istituzioni indipendenti).
Di certo i tempi attuali richiedono nuovi strumenti di azione e nuove dimensioni territoriali per esercitarli, a partire dalla cooperazione tra assemblee, in particolare tra Parlamenti degli Stati dell'Unione europea, sia per armonizzare e orientare l'azione intergovernativa, sia per "stabilire legami di senso, politici e culturali, per la diretta connessione con la base sociale".
"Tuttavia": istruzioni per un futuro molto vicino
Il fatto stesso che quei Parlamenti abbiano continuato a operare anche durante la pandemia (pur con adattamenti, limiti e soluzioni più o meno condivise) è stato per Manzella "una prova di resistenza della loro necessità come garanzia": un baluardo necessario perché l'eccezione dei poteri governativi restasse tale nel sistema costituzionale. Non per questo, però, sembra opportuno ignorare i limiti che il sistema parlamentare può avere e mostrare.
Ne erano consapevoli già i costituenti che, nella Seconda Sottocommissione, il 5 settembre 1946 avevano approvato (22 voti a favore, 6 astensioni) il noto ordine del giorno presentato il giorno prima da Tomaso Perassi (Pri): la Sottocommissione, ritenute inidonee le forme di governo presidenziali e direttoriali, si pronunciò "per l'adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo". L'ordine del giorno sembrava tenere conto degli avvertimenti che il 3 settembre, davanti al medesimo organo, aveva proposto il costituzionalista Costantino Mortati (eletto per la Democrazia cristiana): "Dove non si hanno chiare designazioni da parte del corpo elettorale, la formazione del Governo è frutto di un complesso di accordi fra le varie correnti che si sono manifestate nelle elezioni e i Governi sono, per lo più, di coalizione e risentono di questa debolezza alla base; donde il danno della instabilità dell'indirizzo politico del Governo e la mutabilità dei Ministeri". Definì meglio le "degenerazioni del parlamentarismo" - sempre il 5 settembre - un altro costituzionalista membro della Sottocommissione, Egidio Tosato (Dc): si doveva evitare che il governo parlamentare degenerasse "in governo di assemblea, cioè, in concreto, in governo dei comitati direttivi dei partiti dominanti" e il risultato si poteva raggiungere regolamentando i voti di sfiducia e fissando "un periodo minimo di vita al governo che abbia ottenuto l'approvazione delle Camere" (soluzioni ritenute poco praticabili in Italia), oppure con "una specie di 'contaminazione' del governo presidenziale con il governo parlamentare [...] nel senso di un potenziamento della figura del Presidente del Consiglio, il quale fosse espressione della volontà della Camera, ma avesse la effettiva possibilità di governare".
Non mancarono altre proposte, come quella di Giovanni Porzio (Unione democratica nazionale), convinto che il problema della stabilità si sarebbe risolto evitando il sistema proporzionale: "Quando ci sarà un Governo di maggioranza, quando cioè il corpo elettorale sarà chiamato a discutere su un programma di governo e su questo programma si sarà costituita la maggioranza, si avrà la forza, l'autorità ed il prestigio del Capo del Governo e si avrà la stabilità del Governo. Quando invece ci si trova di fronte ad una situazione elettoralistica nella quale si improvvisano i partiti, non si avrà mai una stabilità di governo e le discussioni saranno inutili perché non daranno mai la stabilità". Porzio aveva in mente quanto aveva vissuto nel primo dopoguerra: "Quando la proporzionale fu adottata, bastò la più piccola questione, per esempio la nomina di un segretario della Camera, perché si potesse dire che il Governo era stato battuto. E fu così che l'Italia ebbe Mussolini". Intervenendo di nuovo sul punto, Mortati respinse l'idea di votare con un sistema uninominale ("bisognerà che si abitui il popolo a prendere decisioni politiche, ed a questo scopo il regime elettorale proporzionalistico è quello meglio rispondente ad abituare il popolo non solo alla migliore scelta degli uomini [...] ma alla valutazione e scelta dei programmi. Il regine uninominale [...], in un Paese come l'Italia che ha bisogno di educazione politica, il sistema uninominale peggiorerebbe l'indisciplina dei partiti e la mobilità, la fluidità delle situazioni politiche, renderebbe più frequenti le crisi parlamentari") ma riconobbe che la stabilità si sarebbe potuta perseguire fissando la durata del governo e consentendo eccezionalmente al Capo dello Stato di sciogliere la Camera in caso di "irrimediabile e prolungato dissidio fra i poteri".
Tornando ad Andrea Manzella, egli sottolinea che se alla Costituente si accettò comunque "il compromesso sul parlamentarismo partitico" a patto che in seguito - alla Costituente o più in là - si provvedesse a correggere quell'assetto dando attenzione alla stabilità dell'azione di governo, di fatto "sono invece seguiti quasi 80 anni di varie omissioni a quel 'tuttavia'" che allora aveva sancito il compromesso e l'impegno. Per il costituzionalista, però, dopo quelle occasioni perse, se ne presenta una ora, irripetibile per l'eccezionalità delle circostanze, tra le quali rientra anche - non va dimenticato - la recente riforma costituzionale con cui si è ridotto il numero dei parlamentari e che costringerà necessariamente a rivedere i regolamenti parlamentari per adattarli al nuovo assetto dell'assemblea. Quel "tuttavia", scritto da Perassi e votato dai costituenti, è stato volutamente ripreso da Manzella nel titolo del suo intervento, per confermare il valore dell'Assemblea e della sua centralità, senza però nascondere i profili di criticità di quell'istituto e riprendendo l'esigenza di intervenire per rimediare a quelle storture e rispondere a nuove esigenze nel frattempo emerse. Tutto questo, ovviamente, per valorizzare l'istituzione assembleare-parlamentare e il suo ruolo di "cerniera tra vitalità e necessità regolatoria della società in movimento".
Da un lato, per l'autore si dovrebbe intervenire sulla Costituzione "per consentire una rappresentatività parlamentare non frammentata in due tronconi, senza alcuna corrispondenza con reali necessità sociali", temperando poi la previsione di un'unica Camera attraverso la costituzionalizzazione di alcune "fasi procedurali rivelatesi ribelli alla disciplina interna", per evitare nuove "prassi gravemente distorsive (e che la Corte costituzionale ormai mal sopporta)". Si potrebbe intanto intervenire sui regolamenti parlamentari per "unificare procedure che oggi si duplicano in maniera diseconomica per la comunità": Manzella propone di istituire "commissioni bicamerali guidate da personalità parlamentari di intesa bipartisan" perché controllino gli investimenti, la semplificazione amministrativa, i nodi e i tempi dell’intervento pubblico nell’economia, individuati come "grandi nodi del 'contratto sociale'" su cui confrontarsi con il governo, magari in una situazione di nuova conventio ad excludendum delle forze avverse al sistema (che comprende pure la dimensione europea).
Sempre sul piano strutturale, i parlamenti dovrebbero elaborare - anche se Manzella dice "inventare", quasi a suggerire che nulla di ciò che ora è in uso sembrerebbe adatto allo scopo - "procedure che siano 'contemporanee' alla fonte della regolazione" (quella governativa), bilanciando l'esigenza di tempi contenuti di discussione e adozione/ratifica delle norme con il rispetto degli spazi di cui il confronto e il dialogo hanno incomprimibile bisogno. Temperare efficienza/efficacia e approfondimento democratico, per difficile che sia, dovrà essere possibile e potrebbero venire in aiuto "procedure digitali" che permettessero un controllo normativo anticipato "alla fonte". Manzella richiama pure la necessità di un lavoro delle Commissioni parlamentari "in stretta corrispondenza allo sviluppo dei programmi di investimento [...] necessari per la Ricostruzione", superando gli attuali "confinamenti settoriali" ma anche aprendosi - lo si ripete - all'ascolto del "mondo intorno".
L'ultimo punto, peraltro, richiede un profondo impegno di ciascun parlamentare, grazie all'aiuto della tecnologia. Non significa affatto cedere alla democrazia diretta a danno dell'assemblea (cosa che finirebbe per cancellare il valore dell'individuo come cittadino), né tanto meno accantonare la presenza fisica in assemblea delle persone elette: Manzella rimarca - in modo meritorio e, visti i tempi, provvidenziale - che questa è "irrinunciabile per l'intersezione dei molteplici rapporti in cui la rappresentanza si verifica e vive, indispensabile nella fase del voto: personale e libero, quale non potrebbe essere da lontano". Significa invece dare valore, attraverso la partecipazione da remoto, ai "procedimenti conoscitivi" dei temi su cui si dibatterà in presenza, nonché - riprendendo un'osservazione fatta nel 2000 da Leopoldo Elia - alle competenze professionali e alle provenienze territoriali dei singoli eletti (che conterebbero di più se i parlamentari non fossero "paracadutati" in circoscrizioni che non conoscono direttamente, ma questa è un'altra storia...). In ogni caso, un sistema simile darebbe nuovo senso - e, ci si permette di aggiungere, nuova dignità - all'attività territoriale dei membri dell'assemblea, intendendo ciascuna e ciascuno di questi come "l'antenna del sistema parlamentare nel territorio e nello stesso tempo, il 'trasformatore' del capitale sociale della sua circoscrizione in risorsa nazionale, anche quando rechi con sé antagonismo e dissonanti fattori di crisi".
Costerà fatica, ma sarà necessario, come sarà essenziale - e benissimo ha fatto Manzella a sottolineare quest'aspetto, che merita di essere sviluppato - affrontare "il problema del controllo pubblico sulle piattaforme informatiche, veri poteri privati che hanno però capacità di condizionamento radicale della sfera pubblica": toccherà ancora una volta al Parlamento "farsi carico di innestare quei sistemi di supremazia speciale, con esercizio privato di pubbliche funzioni, nel circuito democratico rappresentativo". Ciò peraltro potrebbe portare ad attribuire nuovi significati e nuove ricadute al requisito del "metodo democratico" fissato dall'art. 49 Cost. (tema molto caro a Manzella, che non si era mai arreso alla lettura riduttiva di quella disposizione praticata almeno nel primo mezzo secolo dell'Italia repubblicana, come si può tuttora notare nel commento, scritto per la Repubblica nel 1995, sui contrasti interni al Ppi, finiti in tribunale ma trattati dal giudice come "una vicenda meramente privata degli associati"). Si tratta di cogliere l'occasione per aumentare la partecipazione, da intendere come possibilità di conoscere (requisito irrinunciabile per un concorso attivo all'organizzazione politica del Paese ex art. 3 Cost.) e come contributo alla consapevolezza delle questioni in gioco, senza rinunciare a un grammo della funzione unificante e di integrazione dell'assemblea. Anche grazie a quel "tuttavia" che, a distanza di oltre settant'anni, meritava di trovare la giusta considerazione.
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