La Corte di Cassazione ha reso note le decisioni con cui l'Ufficio elettorale centrale nazionale si è pronunciato sulle opposizioni presentate da coloro che hanno rifiutato l'invito del Ministero dell'interno a sostituire il proprio contrassegno o hanno contestato l'ammissione di altri emblemi - ritenuti confondibili - da parte del Viminale in vista delle elezioni politiche del 25 settembre 2022. In tutti e sette i casi, il collegio di giudici ha respinto le opposizioni o le ha dichiarate inammissibili, confermando di fatto il quadro dei 75 contrassegni ammessi dal Viminale (70 in prima battuta e altri 5 dopo un "ritocco" alla grafica o l'integrazione dei documenti presentati). Leggere il contenuto delle decisioni è utile, oltre che per comprendere il percorso che ha portato i giudici a quelle scelte, anche per capire meglio e chiarire in modo definito gli aspetti critici rilevati dal Ministero dell'interno al momento della non ammissione del singolo contrassegno.
La prima opposizione di cui si è occupato l'Ufficio elettorale centrale nazionale ha riguardato il Partito pensionati al centro, il cui emblema era stato depositato - con il numero 14 - da Michele Cremona, indicato quale segretario della forza politica. Il Viminale, tuttavia, aveva chiesto di modificare l'emblema perché conteneva la parola "Pensionati" scritta nel modo che per molti anni ha caratterizzato le partecipazioni elettorali del Partito pensionati fondato e guidato da Carlo Fatuzzo. Cremona ha però eccepito che il simbolo ufficiale del Partito pensionati - soggetto politico peraltro non iscritto al registro dei partiti e che non ha formalmente depositato il contrassegno in quest'occasione - descritto dallo statuto sarebbe un altro (con "un cerchio con scritta Pensionati e due figure umane di anziani che si sostengono") e che in ogni caso altri partiti con la parola "pensionati" nel nome sarebbero stati ammessi nel corso degli anni (a partire da Pensionati e invalidi di Luigina Staunovo Polacco); in questo caso, anzi, Cremona ha rivendicato il consenso prestato da Giacinto Boldrini (indicato come presidente del Partito pensionati e già senatore tra il 2012 e il 2013, candidato in quota Pensionati nel Pdl e subentrato nell'ultimo anno della XVI legislatura) alla presentazione del contrassegno con la dicitura "Partito pensionati al centro" (tutte queste affermazioni, peraltro, farebbero concludere che per lo stesso Cremona, in effetti, il suo Partito pensionati al centro sarebbe un soggetto giuridico diverso rispetto ai Pensionati di Fatuzzo, a dispetto di quanto si è scritto il giorno del deposito del contrassegno).
Per i giudici, però, non conta il fatto che lo statuto del Partito pensionati tuttora descriva un simbolo diverso da quello effettivamente depositato e impiegato per le elezioni (Cremona dice il vero, ma questa storia merita un racconto a parte): il controllo di confondibilità va fatto pure con gli emblemi concretamente utilizzati in modo tradizionale, anche qualora - come in questo caso - il partito non depositi il suo emblema consueto. Di più, il problema non è dato dall'uso della parola "Pensionati", ma il fatto che sia scritta con quel carattere, con quel colore e in posizione centrale creerebbe confondibilità, senza che siano in grado di evitarla le scritte aggiunte, "di dimensioni ridottissime [...], difficilmente leggibili nella versione del contrassegno di 3 cm, quale è quella utilizzata nella scheda di votazione" (il richiamo espresso al colore, poi, sembra voler distinguere il caso in questione da quello dei Pensionati e invalidi, che impiega in effetti la parola nella stessa posizione e scritta con identico carattere, ma la tinge di nero e la colloca in un altro contesto cromatico). Quanto alla "legittimazione" all'uso del simbolo rivendicata da Cremona, per i giudici sarebbe servito un mandato da parte del segretario Carlo Fatuzzo, non bastando la nota dell'ex senatore Boldrini (che "si qualifica presidente del Partito pensionati, ma non fornisce alcuna documentazione a supporto della sua legittimazione"). Un dettaglio è rilevante: per il collegio la tutela dei contrassegni tradizionali vale a prescindere dall'iscrizione di un partito nel relativo Registro, che peraltro sarebbe previsto "esclusivamente per specifiche finalità connesse ad agevolazioni fiscali"; l'osservazione, oltre a porre in dubbio il valore di "patente di democrazia interna" che si era voluto conferire all'iscrizione al registro con il d.l. n. 149/2013, fa pensare che l'Ufficio elettorale centrale nazionale non voglia legare a tale iscrizione effetti diversi, inclusa forse l'esenzione dalla raccolta firme (si vedrà se il tema arriverà all'attenzione del collegio).
La decisione numero 3 riguarda il contrassegno del Movimento politico Libertas, che come si sa era stato presentato in doppio esemplare, dunque si era immaginato che uno dei due sarebbe stato ricusato. Come si è scritto, il primo - col n. 5 - presentato dall'ex candidato sindaco a Roma Paolo Oronzo Magli era stato ricusato, mentre quello presentato dal presidente Antonio Fierro - che aveva dichiarato di non aver delegato Magli a presentare - era stato considerato non in grado di consentire la presentazione di liste (non essendo state presentate le circoscrizioni per il deposito). La decisione dell'Ufficio elettorale centrale nazionale ora consente di sapere che in realtà il Ministero non ha contestato il doppio deposito del contrassegno, ma l'uso della parola Libertas all'interno di uno scudo, ritenuto confondibile con quello fatto dall'Udc all'interno del contrassegno ultracomposito di Noi moderati. Magli non ha accettato di modificare il proprio fregio, ricordando che il partito sarebbe stato presente in Parlamento nella XVII legislatura, attraverso il senatore Bartolomeo Pepe, e che lo stesso contrassegno ha partecipato indisturbato a varie competizioni amministrative (inclusa appunto quella di Roma nel 2021).
Questi argomenti, però, non sono stati ritenuti pregiati dai membri del collegio: per loro, infatti, "lo scudo e soprattutto la parola Libertas costituiscono [...] elementi identificativi del simbolo tradizionalmente usato dall'Udc" e il loro uso da parte del Mpl sarebbe fonte di confondibilità che potrebbe indurre in errore gli elettori; i giudici hanno poi richiamato la tutela accordata ai partiti rappresentati in Parlamento (come è da anni l'Udc). Quanto alla rappresentanza parlamentare nella XVII legislatura, i giudici non l'hanno negata (pur rilevando che Pepe era stato eletto in Senato col Movimento 5 Stelle nel 2013 e aveva poi aderito al gruppo Gal, facendo inserire nella denominazione completa del gruppo anche il riferimento al Movimento politico Libertas dal 16 febbraio 2016 al 4 ottobre 2017), ma hanno concordato col Ministero nel rilevare che il Mpl non ha mai concorso alle elezioni politiche o europee né ha avuto propri eletti, così non scatta la tutela concessa ai simboli usati tradizionalmente da chi è presente in Parlamento (occorre quindi almeno la partecipazione alle elezioni nazionali con quel simbolo, senza per forza aver ottenuto eletti, ma non basta una presenza limitata nel tempo - e, si suppone, in consistenza numerica - in Parlamento). Non si è ritenuto valido neanche l'argomento della partecipazione indisturbata al voto amministrativo: posto che, per i giudici, Magli non l'ha documentata (e sarebbe bastato - ci si permette di dire - produrre il manifesto delle candidature alle ultime comunali romane), per il collegio tali partecipazioni non rilevano "trattandosi di elezioni diverse da quelle politiche", regolate da altre norme. Se in passato - specie con riguardo al Msi-Saya - all'argomento della partecipazione a precedenti elezioni amministrative si era opposto che quelle erano "competizioni particolarmente circoscritte" (cosa che era forse più difficile da dire per il comune di Roma), stavolta si è fatta prevalere la questione delle norme diverse che regolano l'ammissione dei contrassegni.
La decisione numero 6 riguarda la vicenda delicata del Partito liberale italiano, il cui simbolo - come si ricorderà - era comparso due volte, identico, nelle bacheche del Viminale. Si è già ricordato come il Ministero dell'interno abbia ammesso l'emblema n. 41, depositato per conto del segretario Roberto Sorcinelli, chiedendo invece la sostituzione del contrassegno n. 1, presentato per conto di Nicola Fortuna, anch'egli qualificatosi come segretario del Pli. Le premesse della decisione dell'Ufficio elettorale nazionale rivelano che, insieme al simbolo e agli altri documenti richiesti dalla legge, il depositante dell'emblema n. 41 avrebbe presentato anche copia del verbale del consiglio nazionale del 30 luglio in cui si era deciso un profondo mutamento nella guida e nella linea del partito (con l'indicazione di Sorcinelli come segretario con mandato pieno) e degli atti successivi con cui si sarebbe dichiarata la decadenza immediata dell'iscrizione al Pli di Fortuna, del presidente Stefano De Luca e di Giulia Pantaleo (a capo della Gioventù liberale italiana, nonché futura depositante del contrassegno n. 1), diffidando loro dall'uso di nomi o simboli riconducibili al Pli. Fortuna si era opposto alla richiesta di sostituire l'emblema, ritenendosi legittimato come segretario (fin dal 1° marzo 2020, insieme a Sorcinelli e Claudio Gentile) e negando invece la legittimità della convocazione del consiglio nazionale del 30 luglio, per cui si sarebbe dovuto ammettere il simbolo n. 1 ed escludere il n. 41.
Il collegio, come in passato ha fatto per altre vicende simili, ha precisato che non è di sua competenza l'esame delle vicende interne al partito: toccherà al giudice civile occuparsene, nel momento in cui gli atti della cui validità si discute dovessero essere impugnati (il che non appare affatto improbabile). Secondo i giudici - che nella decisione hanno precisato come questo caso, ben più degli altri, sia stato preceduto da una "ampia discussione orale" - conta soprattutto il fatto che il verbale del consiglio nazionale del 30 luglio, "redatto ed autenticato da notaio, non risulta ad oggi impugnato, né è stata preannunciata impugnazione alcuna, né comunque risulta che ne sia stata sospesa l'efficacia": poiché proprio sulla base di quel verbale - senza bisogno di considerare i singoli atti di caducazione delle iscrizioni - il Viminale ha dedotto la legittimazione di Roberto Sorcinelli come segretario e l'efficacia degli atti di "destituzione" di Fortuna (specie quale delegante al deposito del simbolo) e De Luca, mancherebbero i presupposti per l'opposizione (e per la richiesta di escludere il contrassegno in effetti ammesso), per cui il gravame è stato dichiarato inammissibile.
Ben tre delle sette opposizioni, tuttavia, riguardavano l'esclusione di simboli legati a forze politiche denominate Democrazia cristiana. Si erano rivolti all'Uecn tanto Vittorio Adelfi quale depositante della Dc presieduta da Francesco Petrino e coordinata da Francesco Mortellaro (simbolo n. 18, decisione n. 4), quanto Nino Luciani (simbolo n. 50, decisione n. 7), che si dichiara segretario della Dc, e Sabatino Esposito (simbolo n. 58, decisione n. 5), che del partito presiederebbe la commissione di garanzia dello statuto (unico organo rimasto in piedi, prima di riprendere un'attività più ampia): per tutti i loro contrassegni era stata rilevata la somiglianza foriera di confondibilità con riguardo al simbolo - per l'uso crociato impiegato dall'Udc - e anche al nome - riconosciuto alla Democrazia cristiana depositata da Mauro Carmagnola in nome e per conto di Renato Grassi; alla Dc-Esposito e alla Dc-Luciani (si usano queste etichette solo per identificare meglio i progetti politici) era stata anche contestata la mancanza della dichiarazione di trasparenza, per cui se alla Dc-Mortellaro era stata chiesta la sostituzione dell'emblema, dei contrassegni depositati da Luciani e da Esposito si era detto che non avrebbero consentito la presentazione di liste. Tutte e tre le Democrazie cristiane si erano opposte ai provvedimenti del Ministero dell'interno, rivendicando il proprio diritto all'uso esclusivo dello simbolo e del nome della Dc (addirittura Adelfi aveva chiesto l'esclusione della Dc-Grassi e che lo scudo crociato sparisse dal contrassegno di Noi moderati); quanto alle contestazioni sulla mancata dichiarazione di trasparenza, tanto Luciani quanto Esposito l'hanno consegnata oltre i termini (il secondo ha precisato di avere provveduto solo nel pomeriggio del 16 agosto per l'irreperibilità "di un notaio su tutto il territorio nazionale") pur ritenendo di avere adempiuto all'obbligo di trasparenza con il deposito dello statuto.
L'Ufficio elettorale centrale nazionale, però, ha respinto tutte le opposizioni. A proposito della dichiarazione di trasparenza, questa - con sottoscrizione del legale rappresentante regolarmente autenticata da notaio - è stata ritenuta obbligatoria per tutte le formazioni non iscritte al Registro dei partiti politici, non bastando il deposito di uno statuto in precedenza non riconosciuto conforme alla legge dall'apposita Commissione (e non potendosi invocare alcuno slittamento dei termini del procedimento elettorale - per esempio applicando norme dettate per i processi - visto che quelle "rigide scansioni temporali [...] garantiscono la trasparente e corretta competizione e, dunque, la democraticità delle elezioni"). Con espresso riguardo allo scudo crociato, i giudici hanno ricordato ancora una volta che "le vicende relative all'uso dello storico simbolo della Democrazia cristiana sono irrilevanti", come pure ogni questione "attinente all'individuazione del legittimo titolare del simbolo", dovendosi applicare solo le norme dettate per le elezioni, volte "a garantire l'affidamento identitario da parte dell'elettore": l'uso dello scudo crociato da parte dell'Udc - partito da tempo presente in Parlamento - viene tutelato dalla legge anche se il fregio è inserito in un contrassegno ben più complesso (quanto alla Dc-Grassi, di cui Vittorio Adelfi aveva chiesto l'esclusione, il collegio ha precisato che il suo contrassegno non è "tale da risultare confondibile con le denominazioni contenute in altri contrassegni ammessi").
Il quadro delle decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale si completa con la seconda pronuncia, relativa all'opposizione presentata da Dino Giarrusso contro l'ammissione del contrassegno Sud chiama Nord presentato per conto di Cateno De Luca (si tratta dell'emblema in cui è però più evidente la dicitura De Luca sindaco d'Italia). Come si ricorderà, il Viminale aveva chiesto la sostituzione del fregio elettorale depositato da Giarrusso - quello originale di Sud chiama Nord, senza il riferimento a De Luca, al n. 13 - e Giarrusso aveva scelto addirittura di ritirarlo; dalla decisione, però, si apprende che contestualmente l'europarlamentare si era opposto all'ammissione del contrassegno presentato per conto di De Luca (al n. 10), rivendicando - come già anticipato a I simboli della discordia - per sé il titolo a decidere sull'uso del nome del soggetto politico da lui fondato il 25 giugno, aggiungendo di aver depositato il simbolo come marchio d'impresa il 5 agosto. L'opposizione, tuttavia, è stata giudicata inammissibile dal collegio dell'Ufficio elettorale presso la Cassazione: avendo Giarrusso ritirato il proprio emblema, non sarebbe stato più titolato a opporsi (anche se la decisione stessa sembra contraddirsi: prima scrive che il ritiro si è concretizzato alle 14 e 49 del 16 agosto e che alle 14 e 40 era stata presentata l'opposizione, poi si legge che Giarrusso avrebbe rinunciato alla presentazione "già prima della formulazione dell'opposizione: sono stati forse scambiati gli orari?).
Chiusa definitivamente la partita dei contrassegni - a meno che qualcuno tenti di rivolgersi al giudice civile: ora è possibile, ma la strada resta complessa e dagli esiti incerti - resta quella delle candidature, di cui ora si completa l'esame. Sicuramente alcuni profili meriteranno attenzione e saranno approfonditi più in là.
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